Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Come è duro il Natale (ma guai a chi lo cambia)
Il mandorlato di Cologna Veneta: storie lontane, battaglie legali, nuove tentazioni
Nelle tavole natalizie del Nordest non manca mai: arriva subito dopo la mostarda, precede il pandoro e il panettone. Oltre i confini del Garda, da un lato, del Po, dall’altro, fatica a sfondare. Sarà perché non è un dolce «facile», a partire dalla sua consistenza. Nella grande famiglia dei torroni, il mandorlato di Cologna Veneta, lotta per il primo posto in quanto a durezza. Per mangiarlo occorre ridurlo in piccoli pezzi facendo leva sul pollice nello spezzarlo e avere una dentatura in forma non guasta. Il tentativo di alcuni pasticcieri artigianali è stato quello di cambiare le proporzioni degli ingredienti, che sono rigorosamente quattro: miele, zucchero, albume e, naturalmente mandorle (meglio se già pelate). Tanta semplicità ha dato vita a un prodotto longevo: sono secoli che si produce questo dolce in quell’angolo del Veneto stretto tra le province di Verona e di Vicenza, anche se la codificazione della ricetta risale a fine Settecento, e fu codificata nel 1852 da Antonio Finco, leggendario «speziale» (ossia, farmacista) del paese.
Ma com’è nato il mandorlato, e perché proprio in una zona di pianura che sembra essere lontana da tutto? Come ogni fatto che riguarda Cologna, la storia non può prescindere quella della Serenissima. Nel tardo medioevo la zona fu oggetto di aspre contese tra le diverse signorie del territorio. Per porre fine alle violenze, nel 1406, il doge Michele Steno decise di aggregare Cologna a Venezia, per la precisione di farla dipendere dal sestriere di Dorsoduro. Il paese divenne così un’exclave veneziana, pur trovandosi a circa cento chilometri di entroterra dalla laguna. E furono proprio i veneziani a introdurre le prime ricette a base di mandorle: un ricostituente, come si diceva allora, indicato particolarmente per le donne in gravidanza. Ne è una testimonianza il dipinto che risale al 1489, di Liberale da Verona, in cui si vedono due ancelle offrire un dolce che assomiglia tutto e per tutto a quello che si produce ancor oggi.
A raccogliere il testimone di questa tradizione sono poche ditte artigianali, cresciute negli ultimi decenni. Hanno tutte sede nel centro storico e tutte sono attive da più generazioni: portano il nome di famiglie colognesi da sempre, come Bauce e Garzotto. Altre, nel marchio, si rifanno alla storia (San Marco, Gli Speziali). O semplici, coma la Casa del Dolce. Al contrario dei dolci di massa (come può essere benissimo il pandoro, per citare un’altra specialità veronese), si presentano in una confezione di lusso: le più richieste sono quelle di latta, rotonde, dal design liberty degno di un negozio dei primi del Novecento.
Il segreto per un buon mandorlato si cela nella cottura. «Il miele va “battuto a caldo — svela Antonio Bellini, patron della ditta San Marco —fino a duecento gradi: un procedimento che consente di eliminare l’acqua. Anche le mandorle seguono una tostatura particolare. Il risultato è un prodotto bianco e omogeneo». Non c’è una confezione che non presenti, sul fondale, la famosa «ostia», una pellicola che una volta altro non era che un sottile strato di pane azzimo, oggi viene realizzato con la fecola di patate, per evitare l’insorgere di intolleranze nei celiaci. «Serve a evitare che il prodotto si attacchi al fondo» prosegue Bellini. Per il produttore colognese, il mandorlato «continua ad avere un seguito di fedelissimi, ma fa fatica a sfondare fuori dalla sua area di nascita. Qualcuno — afferma — ha suggerito di modificare la ricetta per renderlo più morbido. Ma non avrebbe più senso chiamarlo mandorlato. Ecco perché abbiamo preferito affiancargli altri tipi di prodotti, preservando la ricetta storica di quello che è il nostro simbolo». Ora i laboratori artigianali lavorano tutto l’anno, anche se la produzione dei dolci natalizi, mandorlato incluso, si concentra in tre mesi a partire dagli inizi di ottobre.
Altre ditte puntano tutto sulla longevità. La Garzotto Rocco è arrivata alla quinta generazione. «Da noi viene fatto come nel 1840, anno in cui siamo stati fondati — assicura Dino, l’attuale erede della famiglia —. Ma lavoriamo anche con la materia prima: forniamo alle pasticcerie le mandorle in granella per la creazione di dolci ».
Il «problema» del mandorlato è che vanta, almeno in loco, tanti, troppi «tentativi di imitazione». Una situazione che ha portato a una guerra legale con i comuni confinanti, in particolare con Lonigo, pochi chilometri più a Nord e in un’altra provincia, quella di Vicenza. Cambiano le amministrazioni, ma non cambia la denominazione: anche gli artigiani dolciari locali imprimono sulla scatola la scritta «Mandorlato di Cologna». Una discutibile strategia di marketing che ha avuto strascichi in tribunale.
Confini
È un dolce che fa fatica a sfondare fuori dalla sua area geografica Qualcuno ha suggerito di modificare la ricetta per renderlo più morbido Ma allora non avrebbe più senso chiamarlo mandorlato. Per questo continuiamo a farlo come sempre