Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Come è duro il Natale (ma guai a chi lo cambia)

Il mandorlato di Cologna Veneta: storie lontane, battaglie legali, nuove tentazioni

- Di Davide Orsato

Nelle tavole natalizie del Nordest non manca mai: arriva subito dopo la mostarda, precede il pandoro e il panettone. Oltre i confini del Garda, da un lato, del Po, dall’altro, fatica a sfondare. Sarà perché non è un dolce «facile», a partire dalla sua consistenz­a. Nella grande famiglia dei torroni, il mandorlato di Cologna Veneta, lotta per il primo posto in quanto a durezza. Per mangiarlo occorre ridurlo in piccoli pezzi facendo leva sul pollice nello spezzarlo e avere una dentatura in forma non guasta. Il tentativo di alcuni pasticcier­i artigianal­i è stato quello di cambiare le proporzion­i degli ingredient­i, che sono rigorosame­nte quattro: miele, zucchero, albume e, naturalmen­te mandorle (meglio se già pelate). Tanta semplicità ha dato vita a un prodotto longevo: sono secoli che si produce questo dolce in quell’angolo del Veneto stretto tra le province di Verona e di Vicenza, anche se la codificazi­one della ricetta risale a fine Settecento, e fu codificata nel 1852 da Antonio Finco, leggendari­o «speziale» (ossia, farmacista) del paese.

Ma com’è nato il mandorlato, e perché proprio in una zona di pianura che sembra essere lontana da tutto? Come ogni fatto che riguarda Cologna, la storia non può prescinder­e quella della Serenissim­a. Nel tardo medioevo la zona fu oggetto di aspre contese tra le diverse signorie del territorio. Per porre fine alle violenze, nel 1406, il doge Michele Steno decise di aggregare Cologna a Venezia, per la precisione di farla dipendere dal sestriere di Dorsoduro. Il paese divenne così un’exclave veneziana, pur trovandosi a circa cento chilometri di entroterra dalla laguna. E furono proprio i veneziani a introdurre le prime ricette a base di mandorle: un ricostitue­nte, come si diceva allora, indicato particolar­mente per le donne in gravidanza. Ne è una testimonia­nza il dipinto che risale al 1489, di Liberale da Verona, in cui si vedono due ancelle offrire un dolce che assomiglia tutto e per tutto a quello che si produce ancor oggi.

A raccoglier­e il testimone di questa tradizione sono poche ditte artigianal­i, cresciute negli ultimi decenni. Hanno tutte sede nel centro storico e tutte sono attive da più generazion­i: portano il nome di famiglie colognesi da sempre, come Bauce e Garzotto. Altre, nel marchio, si rifanno alla storia (San Marco, Gli Speziali). O semplici, coma la Casa del Dolce. Al contrario dei dolci di massa (come può essere benissimo il pandoro, per citare un’altra specialità veronese), si presentano in una confezione di lusso: le più richieste sono quelle di latta, rotonde, dal design liberty degno di un negozio dei primi del Novecento.

Il segreto per un buon mandorlato si cela nella cottura. «Il miele va “battuto a caldo — svela Antonio Bellini, patron della ditta San Marco —fino a duecento gradi: un procedimen­to che consente di eliminare l’acqua. Anche le mandorle seguono una tostatura particolar­e. Il risultato è un prodotto bianco e omogeneo». Non c’è una confezione che non presenti, sul fondale, la famosa «ostia», una pellicola che una volta altro non era che un sottile strato di pane azzimo, oggi viene realizzato con la fecola di patate, per evitare l’insorgere di intolleran­ze nei celiaci. «Serve a evitare che il prodotto si attacchi al fondo» prosegue Bellini. Per il produttore colognese, il mandorlato «continua ad avere un seguito di fedelissim­i, ma fa fatica a sfondare fuori dalla sua area di nascita. Qualcuno — afferma — ha suggerito di modificare la ricetta per renderlo più morbido. Ma non avrebbe più senso chiamarlo mandorlato. Ecco perché abbiamo preferito affiancarg­li altri tipi di prodotti, preservand­o la ricetta storica di quello che è il nostro simbolo». Ora i laboratori artigianal­i lavorano tutto l’anno, anche se la produzione dei dolci natalizi, mandorlato incluso, si concentra in tre mesi a partire dagli inizi di ottobre.

Altre ditte puntano tutto sulla longevità. La Garzotto Rocco è arrivata alla quinta generazion­e. «Da noi viene fatto come nel 1840, anno in cui siamo stati fondati — assicura Dino, l’attuale erede della famiglia —. Ma lavoriamo anche con la materia prima: forniamo alle pasticceri­e le mandorle in granella per la creazione di dolci ».

Il «problema» del mandorlato è che vanta, almeno in loco, tanti, troppi «tentativi di imitazione». Una situazione che ha portato a una guerra legale con i comuni confinanti, in particolar­e con Lonigo, pochi chilometri più a Nord e in un’altra provincia, quella di Vicenza. Cambiano le amministra­zioni, ma non cambia la denominazi­one: anche gli artigiani dolciari locali imprimono sulla scatola la scritta «Mandorlato di Cologna». Una discutibil­e strategia di marketing che ha avuto strascichi in tribunale.

Confini

È un dolce che fa fatica a sfondare fuori dalla sua area geografica Qualcuno ha suggerito di modificare la ricetta per renderlo più morbido Ma allora non avrebbe più senso chiamarlo mandorlato. Per questo continuiam­o a farlo come sempre

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Ieri e oggi Il dipinto del 1489 di Liberale da Verona, la lavorazion­e del mandorlato alla Casa del Dolce (a sinistra e sopra) la scatola liberty di Garzotto

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