Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Bibano, i bibanesi e il folletto del pane
Giuseppe Da Re, imprenditore e artista, dal forno del padre all’invenzione col nome del suo paese
Èfacile, per chi scrive, ricordare il primo incontro con Giuseppe Da Re. Quella volta che ha fatto capolino dalla sua profumata catena di montaggio, nello stabilimento di Zoppè, tra forni e impastatrici. Un folletto bianco — capelli bianchi, camice bianco, bianchi la camicia e i pantaloni, solo gli occhi sono azzurrissimi — al lavoro tra i suoi operai. Attorcigliava un piccolo nodo di pasta di pane, sul rullo che scorreva, con una cura che si potrebbe definire parentale. Si è girato di scatto e ha sorriso. Qui, in questo angolo di Sinistra Piave votata al lavoro indefesso, dove il confine tra la terra agra da far fruttare e la nuova industria degli anni Settanta e Ottanta che sfidava una povertà antica è sottile, Giuseppe è l’autore di un piccolo miracolo. Quando è nato, ultimo di nove fratelli, nel 1943, Bibano di Godega di Sant’urbano era un frammento di campagna trevigiana piuttosto periferico. Quando è cresciuto, nel dopoguerra, ha visto stabilirsi i primi capannoni padronali, le aziende di famiglia votate all’industria, al sogno di riscatto di un territorio. Ma è quando, alla fine degli anni Settanta, che prende in mano il panificio artigianale che era stato dei suoi, che il folletto Da Re deve inventarsi una magia.«erano tempi difficili per l’attività. La ereditai in una situazione complessa, affrontava problemi finanziari. Diciamo pure questa parola: aveva dei debiti». Prima c’è da sanare, poi penserà al resto. Lo aiuta nella sua intraprendenza quell’essere l’ultimo figlio maschio. Agli ultimi, nella vecchia famiglia italiana, era riservato un po’ più di spazio per la libertà, per creare e sognare, lontani dalle responsabilità faticose dei primogeniti: non a caso, fin da giova- nissimo dipinge e scolpisce. È imprenditore e artista, un incrocio anagrafico raro tra i paroni del Veneto. Fatto sta che Giuseppe vince la sua prima sfida, senza licenziare, con il solo lavoro, e il piccolo panettiere decolla. Rinnovati tutti gli impianti, diventa un grande panificio che serve il Nordest. E che adesso ha due centri di produzione, più di cento impiegati, 15 milioni di uro di fatturato nel 2017: «ma niente produzione in serie, niente dimensioni industriali». L’avversione al lessico e all’universo fordista, da parte di questo artigiano di un piccolo paese veneto, è ancestrale: piccolo è bello; grande è pericoloso e foriero di sospetti.
È così che sono nati i Bibanesi, i pezzi di pane che avevamo visto attorcigliare da Giuseppe su quel rullo: pane, pane, pane, nient’altro che pane. Non grissini: pane. In fondo, se non fosse che nel frattempo sono sbarcati sulle tavole di mezza Italia, portando il buffo nome di Bibano in giro per la Penisola e anche oltre, non è cambiato granché da allora: la filosofia è la stessa, uguale la ricetta. Farine selezionate, olio extravergine, acqua, sale. E lievito, ma solo per accendere la fermentazione, che dura un giorno intero. Poi, dopo un nuovo impastamento, si dà la forma a ciascun pezzo. A mano, uno per uno. E si inforna tutto per quasi un’ora. Ecco fatto.
Gli ingredienti di Da Re, che condivide con la moglie e con i tre figli Nicola, Francesca e Armando che lo aiutano, sono quelli che trapelano dalle sue parole concitate: entusiasmo innanzitutto, un entusiasmo incrollabile, fideistico, puro, in quello che fa. Non puoi parlare con Giuseppe senza che ti travolga con il suo nuovo progetto, la sua idea, un’illuminazione che gli è venuta. E poi: artigianato, ovvero controllo minuzioso di ogni parte del proprio lavoro, e generosità spontanea. Un po’ più di quella locuzione che andava di moda qualche anno fa, «responsabilità sociale d’impresa»: non è un protocollo, non è una mission, è proprio lui che è fatto così. Chi ci ha avuto a che fare — la signora del paese accanto che lo conosce e gli chiede se può assumere il suo ragazzo in azienda, il segretario della comunità di Bose di Enzo Bianchi che si vede recapitare pacchi di Bibanesi, gli amici di Slow Food che lo vogliono coinvolgere nella nuova iniziativa di Carlin Petrini — lo sa. Giuseppe c’è. Ed è anche artista, si diceva. Soprattutto è un amante del disegno, del colore, del tratto. Questo suo innamoramento l’ha regalato ai bambini. La vocazione si è intrecciata con il genio del marketing: accortosi che c’era una fetta di piccoli consumatori che al tavolo da pranzo cercavano storie su cui giocare e inventare, ha fatto illustrare le confezioni dei Bibanesi dai maggiori disegnatori italiani. Negli anni, Mordillo, Altan, Forattini, Giannelli, Nicoletta Costa, Dario Fo. A tutti loro Giuseppe Da Re ha chiesto qualcosa di più di un disegno: fa «vestire» i Bibanesi. Ogni panetto un personaggio, un tratto di china che trasforma il pane in figure da fumetto. Infine, l’ultimo pezzo della sua ricetta: lavoro, lavoro, lavoro, dalla mattina alla sera, di notte, anche, nel suo studio al primo piano di un capannone, reso allegro e meno prosaico dal profumo croccante del forno e dai souvenir di quarant’anni di professione. «Il lavoro mi ha aiutato. Sempre. E soprattutto quando ho avuto qualche problema di salute. Non so se è una redenzione, sicuramente è la mia forza».
Identità
Niente produzione in serie, niente dimensioni industriali Il lavoro mi ha aiutato sempre, sicuramente è la mia forza