Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Arte e radici»
Renato Bosco e la rivoluzione del piatto italiano più amato «Non sono solo, Verona ormai è un punto di riferimento»
Quest’estate ha preso la carne di una gallina — una varietà che ha rischiato di scomparire per mancanza di allevatori — l’ha conciata «in saor», con cipolla in agrodolce e uvetta e l’ha messa su una delle sue pizze. Qualcuno l’ha presa come un’eccentrica provocazione, intanto è finita sul menu del suo oramai storico ristorante di San Martino Buon Albergo, a due passi da Verona. Non sarà l’ultima invenzione di Renato Bosco, pizzaiolo «autodidatta» che ora insegna nelle scuole per chef. E il cui laboratorio interagisce sempre di più con l’alta cucina. L’anno prossimo, Saporè, la creatura più nota (ma non l’unica) di Bosco, compie dieci anni.
Cos’è cambiato da quando è cominciato questo esperimento?
«Questa decade ha rivoluzionato il modo di fare pizza, è cambiata la consapevolezza, il modo in cui si fruisce del prodotto. Il pubblico è più curioso, ha voglia di mangiare bene, di apprezzare le materie prime, come farine che hanno determinate caratteristiche. La pizza non è più un semplice cibo che riempie la pancia».
La vostra è una storia di successo, ma cambiare il modo di far pizza in un Paese così attento alle tradizioni culinarie come l’italia non dev’essere stato semplice…
«Nell’immaginario collettivo, la pizza è sempre quella rotonda con crosta. Naturalmente le critiche sono sempre alla porta, ma gli apprezzamenti non sono mai mancati. Certo, la nostra proposta funziona molto meglio in alcuni contesti, come quelli cittadini».
A proposito di contesto, è un caso che proprio nel Nord Est, a Verona, siano nate molte pizzerie alternative?
«La pizza tradizionale è quella napoletana, ma i primi a “reinventarla” sono stati i romani. Si tratta di un piatto che cambia, evolve, spostandosi. C’è un gruppo di veronesi che sta lavorando un una direzione ben precisa da almeno quindici anni e sicuramente il nostro territorio è diventato un punto di riferimento per la pizza contemporanea».
Che ruolo ha la territorialità nella vostra proposta gastronomica?
«È fondamentale. La pizza, per come la concepisco è un lievitato da appoggiare ai prodotti del territorio. È così che è nata l’idea di usare come ingrediente la gallina grisa, tipica della Lessinia, la zona montana a nord di Verona. Ed è per questo motivo che, di recente, ho usato il riso Venere della nostra pianura. Si tratta di un modo per far conoscere alcune specificità che perfino i locali spesso ignorano».
A fare da contraltare, però, c’è una squadra internazionale…
«Verissimo: nel mio laboratorio a San Martino si contano persone da sei nazioni che professano quattro religioni. Ci sono cattolici, ortodossi, musulmani e sikh. Farli stare assieme, qualche volta, è difficile, ma i vantaggi sono molti: sono tutti grandi lavoratori, disponibilissimi, e hanno influenzato la mia cucina. È stato grazie a loro se ho iniziato a usare le spezie».
Sul fronte delle materie prime, lei ha annunciato una rivoluzione sull’uso del lievito. Cosa accadrà?
«Stiamo portando avanti un esperimento con la levitazione spontanea. La tecnica è quella di creare naturalmente il lievito, partendo da un impasto di grano spezzato, lasciando che avvenga l’idrolisi dell’amido. Il tutto grazie all’aggiunta di frutta e verdura stagionale, in particolare uva e mele: ingredienti che hanno il pregio di rilasciare un sapore neutro, senza rilasciare aromi in grado di condizionare il piatto. Ci crediamo molto, per fare una battuta potrei dire che c’è “grande fermento” dietro a questa operazione…» Cosa vi aspettate dal futuro? «Punteremo molto sulla cultura: la pizza è arte, colore, ricerca delle radici. E credo molto nella sinergia con l’alta cucina: il 2019 sarà l’anno in cui la pizza entrerà nei ristoranti stellati. Personalmente mi metterò a studiare: non ho mai fatto l’alberghiero, anche se ora mi trovo a insegnare all’alma (l’accademia degli chef, ndr). Ma non è mai troppo tardi…»