Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Il volo delle viti centenarie (a quattro metri da terra)
A San Polo di Piave l’unico esempio del metodo Bellussera. Da salvare A metà Ottocento la filossera distrusse i vigneti europei In Veneto li salvarono alzandoli «Rispettare la storia è la missione»
La filossera piombò come un flagello a metà dell’ottocento. Un parassita piccolissimo, arrivato con alcune barbatelle dall’america, si insinuò nei vitigni europei. Feriva le radici, le infettava, impediva loro di nutrirsi. E fu un trauma devastante, che distrusse quasi l’intera produzione di vino europea.
Si misero all’opera i migliori studiosi del tempo. Ci fu chi pensò di inondare i campi, per soffocare il parassita. Chi proponeva di piantare le viti solo sulla sabbia, dove sembrava attecchire meno. Infine, si giunse alla soluzione dell’innesto su «piede» americano della vite europea, un momento storico dal quale nacquero tutte le produzioni che oggi il mondo del vino immette sul mercato.
Erano gli anni dei pionieri della vite. In quel periodo in Veneto si elaborò una particolare metodo di allevamento, messo a punto dai fratelli Bellussi per migliorare la coltivazione della vite, un metodo che prevedeva un sesto di impianto ampio dove pali in legno di circa quattro metri di altezza erano collegati tra loro da fili di ferro disposti a raggi. Ogni palo sosteneva quattro viti, alzate circa due metri e mezzo da terra, da ciascuna delle quali si formavano dei cordoni permanenti, formando una raggiera.
Un metodo di allevamento complicato: ancora oggi le operazioni di raccolta delle uve si svolgono grazie a un rimorchio e a un pianale che consentono di raggiungere l’altezza necessaria. In compenso, aveva i suoi vantaggi, particolarmente nelle stagioni calde, durante le quali la vite soffriva meno. Poi gli anni e il mercato lo hanno quasi cancellato, per lasciar posto alle spalliere, più funzionali, con le viti piantate a guyot o sylvoz: sono gli impianti famosi per il Prosecco, quelli della meccanizzazione di pianura.
Ma nel borgo medievale di Rai a San Polo di Piave (nel Trevigiano) c’è un’azienda circondata da vigneti (90 ettari), da una chiesa del XV secolo e da un’antica torre del X secolo, che ha fatto della missione di salvare l’impianto a Bellussera una priorità. E conserva ancora oggi quindici ettari, una sorta di monumento a cielo aperto con viti di oltre settant’anni, che viene custodito con religiosa passione. «Rispettare la storia della vite è la nostra mission», dicono dalla Ca’ di Rajo, guidata dalla famiglia Cecchetto, ex mezzadri Giol. La volontà di non sradicare le viti storiche, nonostante l’impossibilità di meccanizzarne le operazioni di potatura e vendemmia, è portata avanti con tenacia da Simone, Alessio e Fabio Cecchetto, nipoti del fondatore Marino Cecchetto.
«Conservare gli impianti di Bellussera, una forma di impianto che rischia l’estinzione, non è semplice», dice Simone Cecchetto. «La viticoltura in questo vigneto si può condurre esclusivamente a mano: la vendemmia si compie a quasi tre metri da terra, sotto le viti disposte a raggiera e lo stesso vale per la potatura». Viticultura a suo modo eroica, dunque, che permette all’azienda di essersi scavata una nicchia di mercato parti- colare e raffinata, oltre ad organizzare visite guidate per mostrare le varietà qui coltivate: Raboso, Glera, Chardonnay, Pinot Bianco, Sauvignon, Verduzzo e Merlot.
Ma non solo. Le produzioni di nicchia sono anche altre. Da segnalare il Manzoni Rosa, autoctono ormai raro considerato che in Italia ne sono coltivati solo tre ettari. Un’uva da cui la cantina di San Polo di Piave produce uno spumante extra dry millesimato a partire dalle sperimentazioni del professor Luigi Manzoni, preside della scuola enologica di Conegliano. Infine, la cantina è impegnata anche nella tutela della Marzemina Bianca, della quale sono rimasti solo dieci ettari in Italia.
Ma il prodotto di cui l’azienda va forse più orgogliosa è «Iconema», ovvero «memoria storica di un territorio». Si tratta di un vino Tai ottenuto da uve di un vigneto, allevato a Bellussera, che risale ai primi anni del Novecento. Un vigneto di proprietà della famiglia Paladin di San Polo di Piave che la cantina ha «adottato» sostenendone la salvaguardia. «Siamo orgogliosi di questo progetto –— spiega ancora Simone —. Si tratta di un importante passo nella nostra battaglia per la salvaguardia del patrimonio vitivinicolo del territorio del Piave». Il progetto è originato da uno studio sulla Bellussera condotto da Diego Tomasi, ricercatore del Crea, Centro di ricerca viticoltura e enologia di Conegliano, Gianni Moriani, coordinatore del master in Filosofia cibo e vino dell’università San Raffaele di Milano e Attilio Scienza, professore di viticoltura all’università di Milano.
Dell’annata 2017 sono state prodotte 3.133 bottiglie da collezione e cento magnum, numerate una ad una e valorizzate da venti artisti che hanno dipinto i cofanetti in legno.
Conservare questi impianti che rischiano l’estinzione non è semplice
Tutto è fatto a mano, a tre metri da terra: la vendemmia e anche la potatura