Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Mele e zenzero, anche a Cortina cambia la tavola
L’impresa di Monica Giustina, grazie alle sue passioni E in un libro raccoglie e rilegge la cucina di montagna
«La cucina è il mio rifugio. Quel posto dove al mattino, con la luce ancora fioca, mescolo amore, passione, speranza e determinazione per preparare la mia sicurezza. Credo che ognuno nella vita debba trovare i propri punti saldi, quei pilastri che, anche quando tutto crolla, sai che saranno sempre lì a sostenerti. Cucinare per me è questo». Quando non ci si riesce a spiegare con le parole contano i gesti. Il fuoco che si accende sotto una pentola, una tavola che viene imbandita con rami di pino, pigne e candele. Ma anche una macchina fotografica che silenziosa fa «clic» e scatta, cliché autocompiaciuti, che per quanto belli e ammiccanti sono pur sempre cliché: la dolce vita, i cinepanettoni, Clark Gable e Brigitte Bardot, Hemingway e Montanelli, la villeggiatura italiana, le feste in casa Marzotto, il maestro di sci che va a letto con la turista lasciata sola sulle piste dal marito rimasto in città con la segretaria... e così via. Insomma la memoria stratificata di Cortina «pesa», condiziona chiunque voglia dire qualcosa di nuovo e di diverso. E in questa gamma di allegri stereotipi sta la gastronomia cortinese, come è stata per molti decenni. È successo anche altrove in Italia, ma Cortina è stata più di altri il tipo di posto dove la maggior parte dei menù restava nel comodo, fastoso alveo della tradizione, un po’ da Grand Hotel, adatta ai palati della borghesia vacanziera ansiosa di ritrovarsi e di rimisurarsi: dove il piacere era nel rinnovarsi di questo gran rito laico più che nella ricerca e nella sperimentazione intorno ai sapori della montagna. Eppure in questi ultimi anni molte cose sono cambiate. Toltasi i panni che le avevamo cucito addosso tutti noi, parlandone e scrivendone e raccontandola, Cortina è più libera di giocare con le proprie molte identità, tra riscoperte dei sapori originari ampezzani — la barbabietola sopra a tutti, ma anche il cumino, il cavolo cappuccio, la ricotta fresca, l’aceto di mele, il ribes, il tarassaco, la silene che quassù si chiama sciopetìs, la genziana con cui fare le grappe — ed esperimenti. Come quello di Monica, trentaquattro anni, architetto, originaria di San Vito di Cadore ma stabilitasi in Ampezzo, che ha messo insieme le ricette di casa e il desiderio di mostrarle, di rendere invitante l’avventura della cucina nella sua lentezza. Parafrasando Montale, Giustina dice di sé: io so quello che non sono. «Non sono una cuoca, non sono una influencer, non sono né una ristoratrice né una scrittrice». Il libro è diviso secondo le stagioni dell’anno, ciascuna con cinque sotto-sezioni, che corrispondono a veri e propri menù: Cibo condiviso, Light & Fresh, Mangiare slow, Comfort food, Conserve. Il cibo condiviso è quello che si vive insieme, i pasti delle feste, dal Natale alla Pasqua alla grigliata estiva; il secondo corrisponde più o meno ai cibi che fanno bene; i «comfort food» sono quelli che proustianamente rimandano alle sicurezze della propria vita, a quanto è più familiare e intimo; infine, proprio lo «slow» è quello che dà il tono e il taglio a tutta l’opera, e nel quale l’autrice sembra forse divertirsi di più, per esempio quando fotografa una colazione a letto, tra cuscini e coperte. Le ricette: nido di agretti con rösti di patate e uovo in camicia, una rivisitazione degli austroungarici canederli a base di zucca e radicchio, i cavoletti di Bruxelles con patate e anacardi,