Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
La rivincita delle trattorie
Quando Paolo Monelli negli Anni Trenta attraversò la Penisola nella stesura del Ghiottone Errante, ancora oggi madre di tutte le guide alle osterie d’italia, al Corrierone gli dissero: «Il tempo per un simile pellegrinaggio è l’autunno; quando la polenta s’incresta di uccelletti appena còlti nel ròccolo, e si cuociono i mosti, e maturano i tartufi, e nebbie aperitive si spargono nella grande piana del Po, ed è piacevole vincerne il ribrezzo con il vin novo e quello vecchio, con le limpide grappe». Eccoci all’autunno e rieccoci alle osterie. Sono divenute oggi quasi un miraggio nel deserto delle banalità culinar televisive, l’oasi di storia e cultura gastronomiche, la mecca di ingredienti stagionali e ricette territoriali, il ritorno a casa dopo un viaggio esotico, ma anche il sapore esotico a 30 chilometri da casa tra una provincia italiana e l’altra agli antipodi tra loro. Le osterie sono la cucina italiana che nasce nelle campagne dove ci s’ingegnava per dare dignità a una tavola povera. Oggi combattono contro la povertà culturale dell’omologazione: da fast food, junk food, street food, dall’apericena o da un’alta cucina francese d’accatto della stella Michelin. In trattoria si riconquista il contatto con la natura, il meteo non è più sereno o variabile, le nuvole diventano cirri o cumuli, i venti brezze o bora, i prodotti esprimono i dettagli della natura perché sono protagonisti del piatto.
Si comincia dal Po proprio perché il delta è sempre stato considerato difficile da vivere, così come l’osteria era storicamente luogo malsano d’una bassa socialità. All’arcadia di Porto Tolle, per esempio, siamo al confine della ristorazione. Non solo metaforico. Il cellulare qui si collega alla Croazia. Siamo all’ultimo pontile resistente del Po, l’ultimo ormeggio per le imbarcazioni, l’ultimo attracco d’una cucina d’acqua dolce. Cucina che sarebbe piaciuta a Giacomo Puccini, dal suo lago di Massaciuccoli amante delle folaghe. Oggi pressoché sparite dalle tavole italiane se non per qualche guizzo come dello chef Igles Corelli, nativo di Ferrara, le folaghe sono uccelli di lago coi quali in questa osteria si fa un ottimo risotto. Ma non mancano nemmeno fischioni, alzavole, anatre e anguille. Queste ultime si mangiano delle più straordinarie alla
Capanna di Eraclio, da Maria Grazia Soncini, dove si cucina anche un ottimo pesce di lago fritto. E raggiungiamola allora Ferrara, patria di uno dei piatti più affascinanti della Penisola: la salama da sugo. Un insaccato da cuocere, preparato con un vino fuorilegge, il clinto, e stagionato un anno ma anche due se avete la cantina giusta. Di straordinaria complessità coi suoi sentori di ranciò e di merde de poule, la salama è come un partito, una squadra di calcio, un cantante rock: o la odi o la ami. Se la odi non vorresti nemmeno sentirne parlare, ma se la ami sei pronto a difenderla contro tutto: è grassa, è pesante, è salata, puzza, fa aumentare il colesterolo... Tutto vero, ma emoziona. Ancora più giù in mezzo ai campi di grano e di pomodori della dieta mediterranea una tappa fondamentale per ogni aspirante chef è la cucina naturale di Pietro Zito agli Antichi
sapori di Montegrosso, in Puglia, a cominciare dai sedanini (maccheroni) di pasta ai tre pomodori (di Torre Guaceto, Barletta e Galatina). In Campania osteria coincide con pizzeria? No, certo. Per non dover scegliere ci sono indirizzi come dai
fratelli Salvo a San Giorgio a Cremano (ma da qualche mese anche a Napoli) dove oltre alle pizze (da provare assolutamente la Cosacca) ci sono anche crocché, arancini e altre tipicità in attesa della pizza. Accompagnate a una grande cantina: dagli Champagne a un bel rosato del Vesuvio. Ultima ma non ultima, la Sicilia. Questa è davvero la terra dove un ingrediente, anche scondito, può fare la differenza. Sole, mare, iodio e vulcano imprimono una profondità particolare a ogni cosa.