Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
CONNESSI ANNESSI E RIMEDI
Succede a tutti di essere importunati in orari una volta dedicati ad altro – cena inclusa – da offerte di servizi e prodotti di vario tipo. E già con il telefono. I nuovi canali di comunicazione e i social hanno tuttavia peggiorato la situazione, producendo una nuova invadenza di massa e una sindrome da fortino assediato (la propria privacy e il proprio tempo), da difendere con le unghie e con i denti. Per questo non stupisce la circolare del liceo Brocchi di Bassano, che chiede a studenti e genitori di non importunare gli insegnanti dopo le 18,30 e prima delle 7,30 del mattino, e soprattutto di non pretendere risposte immediate. L’iperconnessione è un fatto, ma anche un (mal)costume diffuso. Forse innocente nelle sue motivazioni, ma non nei suoi effetti. Di fatto, già l’invenzione dell’e-mail ha creato una forma di disintermediazione radicale. Se penso all’università, dove insegno, gli effetti sono significativi. Una volta, uno studente, per parlare con un docente, doveva recarsi nel suo studio: il che presuppone una qualche formalità (non ci si va in mutande), un orario (quello di ricevimento), spesso anche un minimo di attesa (in coda), e qualcosa di serio da dire o da chiedere (altrimenti non si perde tempo, e non se ne fa perdere, nel timore di una reazione negativa). Il tutto crea di per sé un meccanismo che induce quel minimo di distanza, e di deferenza, che provoca una relazione asimmetrica.
La mail supera tutto questo, senza che ce ne accorgiamo: la scrivi in mutande, all’ora che vuoi, hai la sensazione di avere la precedenza, e un canale diretto, immediato, personale, privilegiato e paritario; il che ha tra i vari esiti anche il proporre domande inutili (la più frequente è la conferma se il programma sia quello scritto sul sito, o la data dell’esame quella indicata) e l’aspettarsi una risposta immediata (capita di ricevere mail di sabato e solleciti già a 24 ore di distanza. E non solo su informazioni puntuali, ma anche, per dire, sulla correzione di tesi di 200 pagine. Naturalmente quando la scadenza di deposito in segreteria è il lunedì…). E questo perché in parallelo con la perdita di rispetto del rango, si esprime una incomprensione generazionale sul significato della messaggistica e dell’espressione «tempo reale»: che per i nativi digitali è appunto tale, per gli immigrati digitali è espressione di assai più vago significato. Quanto raccontato a proposito dell’università, vale per qualsiasi altro lavoro, pubblico o privato. Le minacce alla privacy e al tempo libero non vengono però solo dal basso: che si tratti di studenti preoccupati, di genitori iperprotettivi, o di consumatori e clienti abituati all’esistenza di servizi di customer service aperti H24, ovvero mai chiusi. Vengono anche dall’alto: capi, capetti e datori di lavoro che ti chiamano per cose urgentissime (per loro) la sera o mentre sei in vacanza. Talvolta con la complicità di chi le telefonate le riceve, che alza la voce per farsi sentire: è inutile negare il meccanismo infantile, frequente – e indice anch’esso di specifiche fragilità personali – per cui ci sentiamo importanti se ci chiama il capo a cena o in spiaggia. Facebook, linkedin e i gruppi whatsapp non hanno fatto che peggiorare la situazione, producendo una specie di mobbing indistinto. Forme di autodifesa? Quelle minimali. Staccare tutte le notifiche di messaggi e commenti. Non partecipare a gruppi che vedono compresenti persone con ruoli diversi (genitori, studenti e docenti: che ognuno abbia il suo). Anticipare che non si risponde fuori orario lavorativo per principio, e magari metterlo tra le regole di netiquette del gruppo. Rispondere con ironia e magari pubblicamente a chi le vìola una prima volta, e mandare francamente a quel paese la seconda. La terza, staccare il contatto. La miglior spiegazione alle volte è il silenzio.