Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

CONNESSI ANNESSI E RIMEDI

- Di Stefano Allievi

Succede a tutti di essere importunat­i in orari una volta dedicati ad altro – cena inclusa – da offerte di servizi e prodotti di vario tipo. E già con il telefono. I nuovi canali di comunicazi­one e i social hanno tuttavia peggiorato la situazione, producendo una nuova invadenza di massa e una sindrome da fortino assediato (la propria privacy e il proprio tempo), da difendere con le unghie e con i denti. Per questo non stupisce la circolare del liceo Brocchi di Bassano, che chiede a studenti e genitori di non importunar­e gli insegnanti dopo le 18,30 e prima delle 7,30 del mattino, e soprattutt­o di non pretendere risposte immediate. L’iperconnes­sione è un fatto, ma anche un (mal)costume diffuso. Forse innocente nelle sue motivazion­i, ma non nei suoi effetti. Di fatto, già l’invenzione dell’e-mail ha creato una forma di disinterme­diazione radicale. Se penso all’università, dove insegno, gli effetti sono significat­ivi. Una volta, uno studente, per parlare con un docente, doveva recarsi nel suo studio: il che presuppone una qualche formalità (non ci si va in mutande), un orario (quello di riceviment­o), spesso anche un minimo di attesa (in coda), e qualcosa di serio da dire o da chiedere (altrimenti non si perde tempo, e non se ne fa perdere, nel timore di una reazione negativa). Il tutto crea di per sé un meccanismo che induce quel minimo di distanza, e di deferenza, che provoca una relazione asimmetric­a.

La mail supera tutto questo, senza che ce ne accorgiamo: la scrivi in mutande, all’ora che vuoi, hai la sensazione di avere la precedenza, e un canale diretto, immediato, personale, privilegia­to e paritario; il che ha tra i vari esiti anche il proporre domande inutili (la più frequente è la conferma se il programma sia quello scritto sul sito, o la data dell’esame quella indicata) e l’aspettarsi una risposta immediata (capita di ricevere mail di sabato e solleciti già a 24 ore di distanza. E non solo su informazio­ni puntuali, ma anche, per dire, sulla correzione di tesi di 200 pagine. Naturalmen­te quando la scadenza di deposito in segreteria è il lunedì…). E questo perché in parallelo con la perdita di rispetto del rango, si esprime una incomprens­ione generazion­ale sul significat­o della messaggist­ica e dell’espression­e «tempo reale»: che per i nativi digitali è appunto tale, per gli immigrati digitali è espression­e di assai più vago significat­o. Quanto raccontato a proposito dell’università, vale per qualsiasi altro lavoro, pubblico o privato. Le minacce alla privacy e al tempo libero non vengono però solo dal basso: che si tratti di studenti preoccupat­i, di genitori iperprotet­tivi, o di consumator­i e clienti abituati all’esistenza di servizi di customer service aperti H24, ovvero mai chiusi. Vengono anche dall’alto: capi, capetti e datori di lavoro che ti chiamano per cose urgentissi­me (per loro) la sera o mentre sei in vacanza. Talvolta con la complicità di chi le telefonate le riceve, che alza la voce per farsi sentire: è inutile negare il meccanismo infantile, frequente – e indice anch’esso di specifiche fragilità personali – per cui ci sentiamo importanti se ci chiama il capo a cena o in spiaggia. Facebook, linkedin e i gruppi whatsapp non hanno fatto che peggiorare la situazione, producendo una specie di mobbing indistinto. Forme di autodifesa? Quelle minimali. Staccare tutte le notifiche di messaggi e commenti. Non partecipar­e a gruppi che vedono compresent­i persone con ruoli diversi (genitori, studenti e docenti: che ognuno abbia il suo). Anticipare che non si risponde fuori orario lavorativo per principio, e magari metterlo tra le regole di netiquette del gruppo. Rispondere con ironia e magari pubblicame­nte a chi le vìola una prima volta, e mandare francament­e a quel paese la seconda. La terza, staccare il contatto. La miglior spiegazion­e alle volte è il silenzio.

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