Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
L’ITALIANO, UN AMICO DEI DIALETTI
Negli ultimi giorni è tornato ad accendersi un dibattito che purtroppo nella nostra Regione è frutto più di una miscela tra pregiudizio e scarsa conoscenza che di un serio dibattito: quello sulla cosiddetta lingua veneta, cioè sul simulacro linguistico dell’identità regionale divenuto oggetto di scontro politico. Proverò a evocare i principali pregiudizi e a correggere gli errori più evidenti.
Chiedersi se una varietà parlata (o scritta) sia una lingua o un dialetto non significa attribuirgli una patente di dignità, ma cercar di fotografare la realtà attuale del suo uso, della sua diffusione e del suo rapporto con le altre lingue con cui interagisce. Parlare oggi di una lingua veneta come di una concreta realtà dotata di consistenza storica e culturale quale quella che alcuni le attribuiscono è assurdo. La distinzione tra lingua e dialetto può essere descritta in vario modo, ma nessun linguista serio potrebbe affermare che i dialetti siano «inferiori» in quanto privi della grammatica che va riconosciuta a tutte le lingue naturali. Essi hanno semplicemente una diffusione e un’ampiezza d’uso minori rispetto alle lingue. Non è mai esistita in area veneta una lingua regionale comune che non sia di fatto identificabile con quella del centro storicamente più prestigioso, Venezia. Tutte le parlate di quello che oggi si chiama Veneto hanno elementi in comune e sono la continuazione diretta del latino trasmesso di generazione in generazione nel territorio dopo la sua romanizzazione.
È ciò che accade per tutte le lingue che chiamiamo neolatine, siano esse grandi lingue di cultura, dialetti o lingue regionali, dal portoghese al romeno, dal francese di Parigi alla parlata di Campobasso. I dialetti d’italia non derivano dall’italiano, non ne costituiscono una versione scadente e imperfetta. Né quelli veneti derivano dalla lingua dei Veneti intesi come popolo presente sul territorio già prima della romanizzazione, la cui estinta lingua, il venetico, non è antenata diretta delle parlate odierne. Esse discendono direttamente dal latino, piaccia o non piaccia. È casomai l’italiano, per via della sua storia peculiare, a costituire almeno in parte il frutto d’una combinazione d’elementi (neolatini) di varia origine: in larga prevalenza toscani, certo, ma non solo, grazie a una plurisecolare tradizione scritta che si è svolta in gran parte fuori dalla Toscana (per esempio a Venezia, dove l’arte della stampa diede un contributo cruciale allo stabilimento di una norma italiana). L’adozione dell’italiano come lingua comune delle persone colte dalle Alpi alla Sicilia prima ancora della costituzione di uno Stato nazionale è il prodotto di una storia più letteraria e culturale che politica. L’italiano comune non è stato imposto a chi lo ha usato come lingua di cultura già negli Stati preunitari, e non rappresenta certo il frutto di una violenza, in particolare nell’area veneta, che lo accoglieva da secoli nella produzione scritta, e che dette un contributo decisivo alla sua diffusione. Lingua e dialetti hanno qui convissuto a lungo senza danneggiarsi a vicenda. E la presenza dell’italiano non ha impedito in particolare al veneziano di crescere e fortificarsi nell’uso parlato e anche scritto, sviluppando un’autonoma tradizione letteraria che ne ha fatto una lingua di cultura apprezzata in tutta Europa. Il luogo comune dei Veneti «calpesti e derisi» (come l’inno di Mameli descrive vittimisticamente gli italiani) che rivendicano un’identità disprezzata non ha ragione d’essere sul piano linguistico, e rischia di nuocere alimentando frustrazioni, esponendo a errori speculari a quelli commessi dalla cultura italiana quando in passato si è accanita contro tutti i dialetti, non solo nella nostra regione. Di questo tenore potrebbero essere gli insegnamenti dispensati da chi volesse valorizzare storia, tradizione culturale e dignità dei territori dell’antica Serenissima. Uno Stato che - tra l’altro - non dettò mai leggi su alcuna lingua.