Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
«Quel è una grande sfida formativa»
A Nordest è scoperto il 50% dei profili cercati dall’industria De Bortoli: «Dato che colpisce e preoccupa»
«Partirei da un dato che mi colpisce molto: nel Nord Est, il 50% dei profili cercati dalle industrie manifatturiere non sono coperti da un’offerta sufficiente». Parte da lì Ferruccio De Bortoli — classe ’53, giornalista esperto di economia, presidente della casa editrice Longanesi, già direttore del Corriere della Sera, di cui è oggi editorialista, e del Sole 24 Ore — quando gli si chiede un assaggio dell’incontro a Univerò di martedì, in aula 06 alle 11, con il vice direttore del Corriere di Verona-corriere del Veneto Massimo Mamoli. Titolo: «Ci salveremo? Università, lavoro e riscossa civica».
De Bortoli, Diceva del manifatturiero veneto, …
«Quel 50% deve preoccuparci. È un esempio di gap tra domanda e offerta. A volte parliamo di posti coperti da immigrati che magari hanno studiato: allora quando si dice “prima gli italiani” bisognerebbe porsi il problema di preparare i nostri ragazzi attraverso lauree professionalizzanti».
Altri settori morsi da quel gap?
«C’è tutta una serie di profili che non sono assolutamente coperti. Il rapporto tra i nostri diplomati in istituti tecnici e quelli tedeschi è di 1 a 10. La stessa agricoltura italiana, di grande qualità e sempre più aperta all’economia circolare, non cerca più solo manovalanza pura bensì tecnici specializzati».
L’esigenza sempre più pressante di comunicazione, vedi il ruolo dei social nel racconto del «prodotto», ridà peso alle lauree umanistiche?
«Sicuramente. Per la digitalizzazione servono lauree tecniche ma anche manager del cambiamento reduci da studi classici che siano operatori culturali dentro l’azienda, perché il cambio digitale non è solo tecnologia ma anche humus dell’azienda stessa. Non a caso i laureati in filosofia entrano negli hedge fund: i grandi cambiamenti della società sono relativi allo spirito e gli algoritmi non possono capire tutto del mondo».
Se guardiamo al mercato del lavoro in generale?
«Abbiamo molte statistiche su cui riflettere. Secondo l’istat i giovani tra i 15 e 29 anni inattivi, cioè che non lavorano e non studiano, sono 2 milioni. Una discarica di talento che dovrebbe scandalizzarci».
Giusto alcuni giorni fa i rettori degli atenei veneti spiegavano come siano i salari bassi e l’esclusione dai processi decisionali a spingere i neolaureati all’estero…
«Le nostre aziende, rispetto ai competitor, sono più piccole e più anziane, soprattutto quando si tratta di imprese familiari, e se il tasso di successione è modesto i giovani non trovano spazio. È il coraggio che ci manca. Se un profilo giovane è bravo, utile, perché non fargli un contratto a tempo indeterminato? Purtroppo si preferisce il minor costo della flessibilità all’investimento sul capitale umano, dimenticando che per essere interprete dei valori aziendali una persona deve far parte di quell’azienda a pieno titolo. E se non gli fai vedere un percorso di crescita, è chiaro che i ragazzi se ne vanno».