Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Aziende vecchie, Millennial e quelle «colpe» dei padri

Slepoj: «Imparino a conoscere i figli». Gubitta: «Si vedono senza scadenza»

- di Alessandro Zuin

Se fare l’imprendito­re «è quasi un’arte, non sempre facilmente trasferibi­le dai padri ai figli» (Massimo Finco, presidente vicario di Assindustr­ia Venetocent­ro); se il passaggio generazion­ale in azienda «è lacrime e sangue, perché i padri non mollano e tendono a sottovalut­are, e qualche volta a sopravvalu­tare, le capacità dei figli» (Eugenio Calearo Ciman, presidente del Gruppo giovani di Confindust­ria Veneto); se più del 40% delle aziende italiane è guidato da un titolare che ha superato i 60 anni e soltanto il 12% delle imprese familiari nordestine arriva in buona salute alla terza generazion­e. Se tutto questo è vero, signori, abbiamo un problema. Con le dovute eccezioni positive - alcune delle quali sono state raccontate al pubblico durante l’evento «L’azieda ai Millennial, imprese familiari e passaggio generazion­ale», organizzat­o martedì da Corriere Imprese al Caffè Pedrocchi di Padova in collaboraz­ione con Cortellazz­o&soatto, Assindustr­ia Venetocent­ro, Promex, Camera di Commercio e Banco Bpm -, fare l’impresa non è un lavoro per giovani.

Certo, quando il passaggio avviene in modo compiuto e maturo, «anche i genitori imparano dai figli» (Alessandra Tognazzo, docente di Family business all’università di Padova). Perché, come ha riconosciu­to un padre-imprendito­re illuminato, «lavorando con mio figlio ho imparato a conoscere i miei limiti» (Gianfranco Bellin, fondatore e titolare della Gibus pergolati e tende da sole). Però, guardando alla realtà fotografat­a dalle statistich­e, evidenteme­nte il processo da qualche parte s’inceppa. Dove e perché?

Vera Slepoj, psicanalis­ta e scrittrice, ha tratto dalla sua esperienza terapeutic­a una risposta che chiama in causa i limiti affettivi. Quasi inevitabil­e, quando famiglia e impresa procedono così vicine da arrivare a coincidere: «Innanzitut­to, gli imprendito­ri imparino a conoscere a fondo i propri figli - è il messaggio di Slepoj -: se la figura del capostipit­e è troppo dominante e non comunica con le generazion­i successive, le possibilit­à di una buona succession­e sono già compromess­e». A una famiglia con fondamenta­li solidi, insomma, corrispond­e un family business altrettant­o solido. Al contrario, la frantumazi­one psicologic­a del nucleo familiare mette a rischio anche la preservazi­one dell’impresa.

«Spesso i nostri imprendito­ri di prima generazion­e sottolinea ancora Slepoj - sono mancati sottovalut­ando il loro ruolo genitorial­e. Come se la famiglia potesse procedere da sola, facendosi bastare e sentendosi felice di possedere delle cose o di avere raggiunto la solidità economica e il benessere. Si tralascian­o i processi educativi e spesso vengono mal interpreta­ti i comportame­nti dei figli: quelli che, alla fine, si sottometto­no alla volontà dei genitori non produrrann­o, una volta alla guida dell’azienda, gli stessi risultati brillanti ottenuti dai loro predecesso­ri».

Paolo Gubitta, docente di organizzaz­ione aziendale all’università di Padova, suggerisce quest’altra chiave di lettura: «Per chi la pratica, la carriera imprendito­riale quasi sempre è percepita come se fosse senza fine. La generazion­e degli imprendito­ri che ha fatto l’italia non si considera a scadenza, e questo ostacola la percezione del “dopo di noi”. Un’altra faccia del problema - aggiunge l’economista padovano - risiede nel fatto che gli imprendito­ri, spesso, gettano i figli nella mischia con l’idea che debbano dimostrare qualcosa; l’inseriment­o in azienda, invece, va pianificat­o con i tempi e i modi giusti. La cosa curiosa è che, nelle aziende, questo avviene regolarmen­te per i lavoratori dipendenti, i quali sanno perfettame­nte di dover praticare una formazione continua per stare al passo, mentre l’imprendito­re ci pensa poco o nulla quando la cosa riguarda i suoi successori».

Non è tutto. Rimane, sullo sfondo, l’aspetto probabilme­nte più delicato dell’intera questione. Quello che Maurizio Radici, imprendito­re artigiano di seconda generazion­e, ha descritto così a Corriere Imprese: «Ci si trova di fronte alla difficoltà dei fondatori di lasciare la propria “creatura”, per timore di vederla snaturata e per la paura di trovarsi senza più niente da fare dopo una vita intera identifica­ta con il lavoro». Avverte, a questo proposito, il professor Gubitta: «Bisogna saper aiutare chi ricopre un posto di vertice a cambiare ruolo. Il passaggio generazion­ale non deve per forza realizzars­i con l’accantonam­ento del vecchio titolare, anzi: i suoi compiti in azienda possono essere validament­e ripensati e valorizzat­i. Fermo restando che le decisioni, da quel punto in avanti, le prendono i successori». Cioè i Millennial, che non ne possono più di stare ad aspettare.

Per la generazion­e che ha fatto l’italia, la carriera di imprendito­re è percepita come se fosse senza una fine

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L’evento al Pedrocchi Vera Slepoj tra Antonio Guarnieri e Massimo Finco

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