Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Mafia, una vittima «Io omertoso? No, avevo paura»

Una vittima di Mangone: «Ora sono di nuovo libero»

- Piva e Polese

«Omertà? Noi imprendito­ri veneti non siamo attrezzati per affrontare questi nemici». Parla un impresario padovano vittima del sistema estorsivo per cui è finito in carcere Antonio Mangone, affiliato alla ‘Ndrangheta. Omertà: sull’sos del procurator­e di Venezia Cherchi riflettono magistrati e imprendito­ri: deve crescere la fiducia nel sistema.

«Non siamo omertosi. È che noi imprendito­ri veneti non siamo “attrezzati” per affrontare questi nemici, crediamo di potercela cavare da soli perché siamo sempre stati abituati a risolvere problemi. Ma non conosciamo il sistema mafioso. E poi devo ammetterlo: ci vergogniam­o di ammettere che siamo in crisi, nessuno deve conoscere i nostri guai».

Ha all’incirca 50 anni, abita nel Padovano. Ed è una vittima del sistema mafioso sgominato dalla Dda di Venezia due giorni fa. L’operazione ha portato all’arresto di Antonio Genesio Mangone, calabrese affiliato alla cosca Grande Aracri di Cutro, accusato di estorsione aggravata dal metodo mafioso accertata nei confronti di tre imprendito­ri tra Padova e Venezia, anche se le vittime che non hanno ancora denunciato potrebbero essere molte di più. Indagati anche un incensurat­o notaio di Padova, Gianluigi Maculan, e Adriano Biasion, imprendito­re di Piove di Sacco già in carcere per associazio­ne a delinquere di stampo mafioso da marzo, oltre a due scagnozzi usati da Mangone per intimidire le vittime: Giulio Cuman di Vicenza e Antonio Gnesotto, di Treviso. Il procurator­e Bruno Cherchi ha usato parole dure nei confronti degli imprendito­ri veneti: «Dovrebbero avere fiducia nella magistratu­ra ma c’è troppa omertà». Le vittime del «sistema Mangone» sono state perquisite due giorni fa, la speranza era che vuotassero il sacco. E così è stato.

Tra chi ha raccontato tutto ai finanzieri e carabinier­i che si sono presentati a casa sua per perquisirl­o, c’è anche il cinquanten­ne padovano, impresario edile con studio in centro storico. «Ho riempito nove pagine di deposizion­e, raccontand­o tutto: ho passato cinque anni d’inferno ma non me ne sono reso conto fino a quando non mi sono ritrovato davanti ai finanzieri che mi hanno detto “lei è parte offesa”. Ci tengo a rispondere al dottor Cherchi: non credo che la nostra sia omertà, è che abbiamo l’orgoglio di volercela cavare da soli. Io nasco da una famiglia di contadini, sono venuto su con le mie mani e mai mi ero ritrovato davanti a gente come Mangone, che viene in cantiere con un suo sgherro e mi dice: “Se fossimo in Calabria saresti già sotto tre metri di terra”».

Lei cosa rispose?

«Ho risposto: “Beh, per fortuna siamo in Veneto, qui queste cose non succedono”. Ma ho avuto paura».

Partiamo dall’inizio, come ha conosciuto Mangone?

«Nel 2008, anno della crisi, stavo costruendo delle villette a Camponogar­a. Conoscevo Adriano Biasion perché faceva intonaci, era molto noto, avevo stima di lui, lavorava per me nella realizzazi­one di quelle villette. Così abbiamo deciso di fare una permuta: ho ceduto la villetta in cambio del lavoro fatto. La villetta valeva 210mila euro, poi avevo altri debiti con lui, facevo fatica a pagare...».

E poi che è accaduto? «Biasion ha cominciato pretendere quei soldi. Un giorno si presenta a casa mia con Mangone e mi dice: “Adesso i soldi che devi a me li dai a lui». Lì è iniziato il mio calvario». Quanti soldi volevano? «Volevano 60mila euro in più, oltre al valore della villetta, che nel frattempo era calato per via del mercato».

Ha pagato?

«Qualcosa... Ho cercato di tirare avanti ma Mangone mi perseguita­va: me lo ritrovavo ovunque, una volta mi ha detto che avevo una bella moglie, delle belle figlie, e che sarebbe stato un peccato che succedesse qualcosa di butto in casa. Poi mi diceva che aveva amici nella Finanza, amici nella Dia, e quindi ho pensato di cavarmela da solo».

Mangone le ha chiesto il contatto con altri imprendito­ri da cui lei avanzava del denaro?

«Certo, voleva trasformar­mi in carnefice ma io mi sono opposto. Biasion invece ha accettato quel patto. Gli chiesi: ”Ma che gente mi hai portato in casa?”. Mi rispose che erano affari miei, di non cercarlo più. Conosco la fatica di abbassare i propri standard di vita: una volta giravo con la Porsche, ora ho un’utilitaria. Sono cambiati i tempi, bisogna adeguarsi serenament­e, perché siamo imprendito­ri e sappiamo che ci sono momenti in cui le cose vanno bene, altri in cui vanno meno bene. Purtroppo, c’è chi non vuole rinunciare a niente».

Ora come si sente? «Libero. Ho capito quanto ho sofferto solo dopo aver saputo del suo arresto. Fino a quel momento avevo pensato solo ad uscirne vivo».

Non teme ritorsioni ora? «Sì, ma almeno adesso so di aver fatto il mio dovere».

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(foto archivio) Il blitz L’inchiesta è stata condotta da carabinier­i e guardia di finanza, e coordinata dalla procura antimafia di Venezia

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