Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Mafia, arrivano le prime denunce degli imprenditori
Padova, la Guardia di finanza raccoglie le denunce contro Mangone. Tutto è partito da un costruttore
Dopo l’ultima inchiesta sulle infiltrazioni mafiose in Veneto, inchiesta che ha portato all’arresto di Genesio Mangone della cosca grande Aracri, il procuratore aveva accusato gli imprenditori di non collaborare. E a quanto pare l’atto d’accusa ha sortito effetto: le vittime si stanno presentando alla Finanza di Padova.
Arrivano. Alla spicciolata, timorosi, qualcuno accompagnato da un avvocato. Ma alla fine si sono fatti coraggio e hanno raccontato le loro vicissitudini alla Guardia di finanza. Sono i tredici imprenditori sparsi in tutto il Veneto che negli ultimi dieci anni sono stati vittime di Antonio Genesio Mangone, l’uomo arrestato per associazione mafiosa ed estorsione, legato al clan Grande Aracri e ai Fratelli Sergio e Michele Bolognino, i «ras» della ‘ndrangheta che hanno piegato alle loro volontà decine di imprenditori. La Guardia di finanza di Venezia sta raccogliendo in queste ore tutte le denunce che servono per completare il quadro investigativo a carico di Mangone.
Tre erano le estorsioni che gli erano state attribuite nel capo di imputazione, molte di più quelle per le quali vi erano solo dei sospetti, che per essere confermati avevano bisogno di dichiarazioni scritte. Ed è accaduto, pian piano il puzzle si sta ricomponendo e non solo con denunce a carico di Mangone, ma anche nei confronti di suoi complici, che si sarebbero presentati nelle aziende degli imprenditori a pretendere la restituzione di denaro non dovuto, debiti non contratti. A lanciare un primo segnale è stato un imprenditore del settore delle costruzioni padovano che al Corriere del Veneto ha raccontato i suoi cinque anni di inferno, vissuti con il fiato di Mangone sul collo e a meditare sul tradimento di impresari amici che improvvisamente si sono trasformati nei peggiori nemici. «Non so se il mio sia stato coraggio, a un certo punto ho capito che bisognava dire qualcosa — ha ripetuto l’imprenditore padovano ieri — e ho saputo che altri hanno deciso di fare come me». Forse ispirati dalle sue parole, incoraggiati dall’idea di non essere soli, abbandonati al loro destino e incapaci di fronteggiare un nemico ancora sconosciuto: il mafioso.
Per loro non è vero quello che dice il capo della Procura di Venezia, Bruno Cherchi, ossia che «tutti sanno che cos’è la mafia». Come ha spiegato Pierpaolo Romani, coordinatore nazionale di «Avviso Pubblico», molti conoscono la mafia di Gomorra, di Suburra, pochi sono preparati a fronteggiarla e riconoscerla quando ce l’hanno sotto il naso. E l’imprenditore padovano lo ribadisce: «Io non avevo capito chi era Mangone». Del resto a presentarglielo era stato uno dei suoi migliori collaboratori, Adriano Biasion (in carcere), di cui si fidava e che invece l’ha trascinato all’inferno. Era Biasion quello con cui il padovano aveva un debito ed è stato Biasion a cedere il debito all’affiliato della ‘ndrangheta. Un tranello in cui pare siano caduti in molti, finiti nel tritacarne delle estorsioni, rimasti in silenzio per anni perché convinti che «prima o poi avrebbero sistemato le cose».