Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Bertussin, il Muro e la cella della Stasi

Il trevigiano fu arrestato con l’accusa di essere una spia

- Michela N. Moro

«Ho trascorso quattro anni in prigione, accusato dalla Stasi di essere una spia». Il trevigiano Graziano Bertussin racconta gli anni della Germania Est e la svolta storica del muro di Berlino.

Compare anche Graziano Bertussin in «1989 Cronache dal Muro di Berlino», il documentar­io di Ezio Mauro trasmesso su Rai3 in occasione dei trent’anni dalla caduta del Muro. Bertussin, 76 anni, è nato ad Isola d’istria, terra d’origine della mamma, ma ha vissuto fin da bambino a Treviso, dove il padre carabinier­e fu trasferito dal Friuli. Da ragazzo voleva vedere il mondo, aveva la passione della politica e così a 21 anni si è trasferito a Berlino («a quel tempo la Germania era sulla bocca di tutti»), diventando suo malgrado uno dei simboli della resistenza a ciò che il Muro rappresent­ava.

Nel 1968, a 24 anni, fu arrestato dalla Stasi (la polizia segreta dell’allora Repubblica democratic­a tedesca) con l’accusa di essere una spia, un agente del Sifer, il Servizio segreto militare italiano. «Lavoravo come magazzinie­re in un’azienda degli inglesi — racconta Bertussin — ogni tanto andavo a Berlino est e facevo qualche foto. La polizia mi ha fermato proprio perché avevo ritratto l’ambasciata del Vietnam, era vietato. I vertici della Stasi mi proposero allora di fare la spia per loro, specialmen­te sulle attività degli inglesi: solo a queste condizioni mi avrebbero rilasciato, perciò accettai. Mi liberarono e io raccontai tutto agli inglesi, proponendo di fingermi spia per i tedeschi e portare invece notizie a loro. Non vollero, mi dissero: non puoi fare il doppio gioco. Così tornai alla Stasi, che però dopo un po’ mi arrestò, contestand­omi di fare la spia per inglesi e italiani». Pestato e costretto a confessare, Bertussin fu condannato a dieci anni di prigione dal tribunale militare e trasferito a Bautzen, vicino a Dresda. «Quando sono arrivato in carcere, mi hanno dato delle coperte e mi hanno detto: lei avrà tanto tempo di pensare a ciò che ha fatto — racconta l’ex prigionier­o ad Ezio Mauro, intervista­to davanti alla sua ex cella, la 319 —. Ero distrutto, ho cominciato a piangere disperato, mi sono buttato sul pavimento e loro gridavano: no, è proibito! Non si può coricarsi sul pavimento di giorno».

Nelle ore diurne, i prigionier­i dovevano infatti stare in piedi, altrimenti venivano appesi per le manette alle sbarre. «Erano sevizie e minacce continue — conferma Bertussin — mi dicevano: resterà qui 50 anni, oppure possiamo ucciderla, metterla in un buco e seppellirl­a o portarla in Siberia. Tanto nessuno la cercherà mai, nessuno sa che è qui. Avevo

Graziano Bertussin

Ho trascorso quattro anni in prigione, tra botte e sevizie. Un’amnistia mi ha liberato e sono finito nel campo profughi. Ma oggi a Berlino vivo bene

paura, ogni volta che sentivo aprire la porta della cella pensavo: ecco, vengono a fucilarmi. Dopo la condanna fu peggio ancora, mi picchiavan­o sempre e se mi ribellavo mi sbattevano per tre settimane in celle fredde e umide, con un buco nel muro dal quale entrava aria gelida, senza coperte e quasi senza cibo». Se gli chiedi cosa gli abbia dato la forza di resistere, risponde: «La speranza che un giorno sarei tornato libero». Accadde nel 1972, per un’amnistia voluta dal governo della DDR in vista di un accordo di normalizza­zione dei rapporti politici tra le due Germanie. «Un giorno prima di uscire dal carcere ho dovuto dichiarare per iscritto di non aver mai incontrato la Stasi», rievoca Bertussin, che non ricevette alcun aiuto dal Consolato italiano nè fu mai risarcito per la lunga e terribile detenzione. «Al Consolato mi accusarono di aver detto ciò che non dovevo — racconta — ma ero stato costretto. Sono finito in un campo profughi, insieme a chi scappava dalla Germania est». Quando è uscito, è tornato a Treviso,dove ha tuttora un fratello, e si è sposato. Ma la Germania nonostante tutto gli era rimasta nel cuore, così dopo il divorzio ci è tornato, nel 2010 si è risposato e ha avuto un figlio. Ha ripreso a fare il magazzinie­re e poi è passato alla Siemens, fino alla pensione.

«La caduta del muro? Dopo l’euforia iniziale, le popolazion­i delle due parti di Berlino si guardavano in cagnesco, perché con la riunificaz­ione il governo della città si è dovuto sobbarcare economicam­ente anche la parte comunista, tagliando molti servizi ai propri cittadini — spiega —. Un po’ alla volta si è arrivati all’integrazio­ne e abbiamo ricomincia­to a vivere bene. Qui non aspetto mesi una visita specialist­ica, ce l’ho subito e gratis, prendo una buona pensione e quando ho nostalgia dell’italia guardo in tv i canali italiani, con la parabola. Oppure ci torno: a Treviso, a Venezia, al Lido, a Pordenone. Ma sempre in albergo, mi piace di più».

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