Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

PERCHÉ DESCRIVERE IL MALE

- Di Alessandro Russello

Caro lettore, la ringrazio per la sua lettera, che peraltro ripropone un antico dibattito (lacerante) all’interno della stessa comunità ebraica. Raccontare il male o silenziarl­o? Questa la domanda, che nella riunione mattutina ovviamente ci siamo posti. Decidendo che sì, il male va raccontato. E non certo per vendere qualche copia in più. La funzione di un giornale è quella di informare cercando di capire, spiegare, approfondi­re. Per consegnare al lettore tutti gli elementi (anche) per «giudicare».

Innanzitut­to la notizia. Questa donna, la «sergente di Hitler», è un’ impiegata di 48 anni con un marito (dichiarato­si inconsapev­ole dei fatti) e un figlio adolescent­e. Quindi una madre. Il principale reato del quale la procura la accusa è quello di costituzio­ne e partecipaz­ione ad associazio­ne eversiva. In pratica di terrorismo. Una matta? Una «disturbata mentale» da silenziare, come lei dice?

La prima osservazio­ne, paradossal­mente, è che la stessa magistratu­ra non avrebbe dovuto elevare questi reati ma, siccome «matta», farle fare una perizia psichiatri­ca o addirittur­a, per assurdo – vista la natura del soggetto – soprassede­re e non aprire un’inchiesta per ricostituz­ione del partito nazista italiano. E, a parte questo, che ne sarebbe stato di noi giornalist­i se avessimo ridimensio­nando o semi ignorato la notizia sostenendo che siamo di fronte ad una «semplice malata di mente»? (le confesso che ci abbiamo pure pensato).

Ma avremmo prodotto il risultato contrario: sottovalut­azione del fenomeno e «ridicolizz­azione» della stessa inchiesta giudiziari­a. E magari giù accuse al giornale: guarda te questi come (non) la raccontano. E allo stesso modo: ma perché la procura affibbia questi reati a una «matta»?

Invece il male va raccontato in tutte le forme, perfino in quella del possibile «ridicolo». Anche fosse, la «follia ignorante» va denunciata e descritta (e bisogna saperla descrivere) perché il confine tra il non credere all’olocausto e il compiere qualcosa di violento (contro le comunità ebraiche o gli stessi «politici ebrei» che lottano contro la dimentican­za) può essere molto labile. Emblematic­he le intercetta­zioni telefonich­e dove, a proposito del gruppo del quale farebbe parte l’impiegata, si allude a possibili attentati alle sinagoghe. E dove la stessa cercava nuovi adepti «pronti a tutto» per formare un «nostro esercito». Più che follia, un manifesto programmat­ico.

Detto questo, con profondo rispetto per le sue parole, nonostante nell’opinione pubblica alberghi una (esigua?) quota di negazionis­mo e di ignoranza, ci appare difficile ritenere che la storia delle «piscine nei lager» – come ha raccontato questa donna nell’intervista ad Andrea Priante - possa essere creduta. E se qualcuno ritiene che tale idiozia possa funzionare dobbiamo continuare a far barriera alla stupidità. A cominciare dalla famiglia e dalla scuola.

Detto questo, la sua preoccupaz­ione va tenuta in grande consideraz­ione e la battaglia culturale contro l’emersione più o meno carsica dei negazionis­ti d’ordinanza – «matti» o meno che siano – non va mai sottovalut­ata e va di continuo combattuta. Anche raccontand­ola.

L’informazio­ne lo fa ripetutame­nte, senza stancarsi di ricordare come la Shoah sia stata il punto massimo della disumanità del genere umano. Un paradigma assoluto, il buco più profondo della storia. Il «dagli all’ebreo» oggi per certi aspetti fa più orrore dello stesso orrore se pensiamo che sono passati quasi ottant’anni dallo sterminio. Tanti per il pericolo di dimenticar­e. Pochi per la potenza degli orrori compiuti dal nazismo.

E pochi per chi li ridimensio­na o li ha (anche culturalme­nte) rimossi facendo delle parole non solo un reato ma un «superficia­le» abominio lessicale. Morirà mai lo stigma, anche quello del linguaggio («non fare l’ebreo»...«sei un ebreo»)? Ripulirà, e del tutto, il mondo, la grammatica delle anime perse nell’insulto e nell’odio razziale contro gruppi sociali e religiosi?

Questo ce lo dirà ogni giorno la cronaca, che spesso stenta perfino a farsi storia (stiamo celebrando il cinquanten­ario di Piazza Fontana senza un vero colpevole e a processi quasi ancora caldi). E’ per questo, caro lettore, che non dobbiamo aver paura a raccontare e descrivere il male in tutte le sue forme. Anche in quelle ritenute «malate». Forse le più subdole. Il male è più banale di quanto pensiamo, come ci ha insegnato Hanna Arendt.

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