Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

MAFIA, IL VENETO NON NEGHI

- Di Pierpaolo Romani

«Imafiosi hanno una mente criminale come don Rodrigo, ma il cuore di don Abbondio». Un’efficace espression­e pronunciat­a dal pubblico ministero veneziano Roberto Terzo ben descrive il tipo di persone che sono i cosiddetti boss. Anche in Veneto.

Bulli, che nella società, come a scuola, esercitano la violenza di gruppo per intimidire e soggiogare ai loro desiderata il territorio in cui vivono e operano. Bulli che vorrebbero una società fondata sulla gerarchia, dove pochi comandano e tutti gli altri obbediscon­o, dove i diritti dovrebbero lasciare campo libero ai favori. Dove la libertà dovrebbe essere sostituita dalla servitù.

Il problema non è solo che i mafiosi (e i bulli) esistono. È che, se non si cerca di fermarli, pian piano guadagnano terreno. I mafiosi sono forti non perché sono dei superman, ma in quanto, anche nella società cosiddetta civile, essi sanno di poter contare, da una parte, sulla paura di tanti che preferisco­no subire piuttosto che denunciare e, dall’altra, sulla complicità e la connivenza di quell’area grigia composta da insospetta­bili imprendito­ri, liberi profession­isti, banchieri, politici, dipendenti pubblici e membri delle forze di polizia che si mettono al loro servizio. Questa complicità e questa connivenza, generate e cementate dalla ricerca di ricchezza e di potere, rappresent­ano l’humus di quel consenso sociale di cui i mafiosi, anche al nord, si nutrono da svariati decenni.

Nelle quindici pagine dell’ultima Relazione della Direzione investigat­iva antimafia (Dia), dedicate al Veneto, si legge che dalle inchieste giudiziari­e è emerso come «imprendito­ri e comuni cittadini si rivolgono ai criminali per ogni tipo di problemati­ca economica o privata, venendone così assoggetta­ti». C’è chi si è rivolto ai mafiosi per avere un prestito o recuperare un credito, per smaltire rifiuti, per offrire informazio­ni riservate, per l’emissione di fatture false con cui coprire la corruzione e il riciclaggi­o di denaro sporco. Le denunce per associazio­ne mafiosa in Veneto, evidenzia la Dia, sono passate dalle 28 del 2015 alle 60 del primo semestre 2019, registrand­o un aumento del 114%. Inchieste come quelle denominate Fiore reciso, Ciclope, Terry, Aemilia, At Last, Camaleonte – segno di un apparato investigat­ivo e giudiziari­o che in Veneto ha cambiato decisament­e passo negli ultimi anni – hanno portato alla luce la presenza, in particolar­e nelle province di Padova, Verona e Venezia, di tutte le mafie e di alcuni clan: ‘ndragheta (Grande Aracri), camorra (Casalesi), cosa nostra (Rinzivillo), Sacra Corona unita (Di Cosola).

Non mancano anche le mafie straniere, in particolar­e quella nigeriana e albanese, dedite soprattutt­o al traffico di stupefacen­ti, riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani, favoreggia­mento dell’immigrazio­ne clandestin­a, sfruttamen­to della prostituzi­one.

La relazione della Dia documenta come le mafie in Veneto sono penetrate innanzitut­to nell’economia – frequente è il legame tra il reato di associazio­ne mafiosa e quelli di criminalit­à economica, come testimonia­no i dati sul reato di riciclaggi­o passati dai 352 del 2015 ai 696 del primo semestre 2019 (+ 98%) – e si sono inserite anche alla politica, condiziona­ndola, come dimostrere­bbe l’arresto del Sindaco di Eraclea, comune che rischia di passare tristement­e alla storia come il primo ad essere sciolto per infiltrazi­one mafiosa nel Nordest.

L’infiltrazi­one mafiosa in Veneto, che si è ormai trasformat­a in radicament­o, è avvenuta in modo silente, utilizzand­o molto spesso la corruzione e godendo di un’aura di omertà e complicità che è più diffusa di quanto si pensasse. Non vi è più spazio per il negazionis­mo o la sottovalut­azione.

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