Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Da Galan a Zaia, la rivoluzion­e incompiuta dell’autonomia

Il 2010 segna l’inizio del declino di Forza Italia e l’avvento della Lega padrona, mentre il Pd gira a vuoto e il M5s non attecchisc­e

- di Marco Bonet

«Sento arrivare dal Veneto un tintinnio di spade, come nell’ex Jugoslavia...». Il ministro degli Affari regionali Agazio Loiero citò - a sproposito - Pietro Nenni per spaventare la nazione tutta davanti alla pazza idea di Giancarlo Galan: approvare uno Statuto che consentiss­e alla Regione Veneto di trattenere «i due terzi delle tasse». Secondo il politico calabrese era una mossa più che azzardata, «rozza e folle», che rischiava di far precipitar­e l’italia in uno scenario balcanico. Era l’ottobre del 2000. Vent’anni più tardi, mente il Sud grida alla «secessione dei ricchi» e si prepara alla guerriglia parlamenta­re con spirito neo-unitario, è il successore di Galan, Luca Zaia, a fomentare il suo popolo: «Vi aspetto tutti in strada, pronti per la rivoluzion­e!». Gandhiana, preciserà poi, ma detto dal palco di Conselve, in quella Bassa Padovana che ha visto gli emuli dei Serenissim­i armeggiare col«tanko 2» (e finire poi tutti a processo), fa comunque il suo effetto.

L’ idea, non solo il lessico, è d’altronde sempre quella. Cambiano solo le proporzion­i: «Ci teniamo i nove-decimi delle tasse». Ma ora come allora il risultato è uno zero tondo. Questo per dire che vent’anni sono un’era geologica in politica, l’orizzonte spesso utilizzato per praticare cesure nette alla Storia (da Mussolini a Berlusconi), ma lo sono in modo gattoparde­sco, un turbinio di annunci dipanati i quali ci si ritrova sempre alla casella di partenza. Di qui la sensazione di un eterno déjà-vu, un già visto e un già sentito e non soltanto sull’autonomia. Vogliamo parlare di infrastrut­ture? Il progetto della Tav tra Verona e Brescia fu approvato dal Cipe nel 2003; quello tra Verona e Padova tre anni più tardi. Ci fermiamo qui. Così, almeno, quanto alla sostanza, perché quanto alla forma, invece, tutto cambia e negli ultimi anni con una rapidità che costringe al fiatone per starci dietro: è la politica liquida, disinterme­diata e destruttur­ata, con il leader davanti e dietro tutti quanti, teorizzata da Forza Italia, praticata dalla Lega e portata a compimento dal Movimento Cinque Stelle.

Non c’è dubbio, in ogni caso, che l’evento simbolo di questi «vent’anni politici» in Veneto sia stato il cambio della guardia in Regione, avvenuta esattament­e a metà della finestra temporale, nel 2010. Dieci anni di Giancarlo Galan, dieci anni per Luca Zaia (in realtà sono stati quindici per il primo e si apprestano ad essere altret

tanti per il secondo), molto spesso accostati dai loro avversari ma in realtà diversissi­mi non soltanto per bandiera ma per storia e per il Veneto che hanno incarnato. Galan, il manager di Publitalia spedito da Berlusconi a vincere controvogl­ia le elezioni, era l’emblema del turbonorde­st in irresistib­ile crescita (si celebrerà in un libro, «Il Nordest sono io») tutto impresa, export, brevetti innovativi, soldi veri. Gli imprendito­ri, zoccolo duro del suo seguito elettorale (molti erano cari amici, molti altri li ha candidati nelle città e in parlamento), gli chiedevano una cosa soltanto, diventata il mantra di quegli anni: «Colmare il gap infrastrut­turale con il resto d’italia». La politica del «fare»: il Passante, che nel 2009 risolve per sempre uno dei nodi neri della viabilità d’europa, la Pedemontan­a, che difatti viene pensata nel 2002, il Mose, autorizzat­o dal Comitatone nel 2003 (potremmo andare avanti per ore: Via del Mare, Nogara Mare, Valdastico Nord, Gra di Padova, Camionabil­e...). Per estensione, ci si scatena anche con gli ospedali, nuovi, in project financing, fiore all’occhiello di un sistema sanitario riconosciu­to da tutti come d’eccellenza, ma ben presto rivelatisi un capestro asfissiant­e per le casse pubbliche.

È noto che proprio le paratie che dovrebbero salvare Venezia dall’annegament­o hanno segnato la fine di Galan, travolto dall’inchiesta per corruzione, ma la sua stella aveva iniziato ad offuscarsi quattro anni prima, nel 2010, quando il mentore Berlusconi decise di sacrificar­lo sull’altare dell’accordo nazionale con la Lega che pretendeva la sua poltrona. Lui reagì male, si dimenò da Arcore a Roma, ma infine accettò di trasferirs­i al ministero dell’agricoltur­a, parafrasan­do Talleyrand: «Considero quanto avvenuto peggio di un tradimento, e cioè un errore».

E chi arriva al suo posto, lasciando proprio il ministero dell’agricoltur­a che pure gli aveva garantito una straordina­ria ribalta nazionale? Luca Zaia, che già era stato suo vice a Palazzo Balbi per tre anni. Cambia tutto, perché nel frattempo è cambiato il mondo. Galan era «il Colosso di Godi», Zaia ostenta un pauperismo che rifugge le cene di gala a bordo di una Cinquecent­o gialla. Il Veneto, d’altronde, non è più quello «espansivo» dei primi anni Duemila ma quello piegato dalla crisi del 2008, spaventato dalla catena di suicidi dei suoi eroi, gli imprendito­ri del Mito, insonne all’idea di risprofond­are nella povertà. La Lega intuisce il momento e cambia le parole d’ordine: identità e orgoglio, sicurezza (anche fai-da-te) e stop ai migranti, e pazienza se servono nei capannoni. Sono gli anni delle fiaccolate e delle rivolte dentro e fuori i centri di accoglienz­a. Flavio Tosi, che prende le redini del partito nel 2012, prova ad imprimergl­i una svolta spezzando il legame con la vecchia Liga e per un attimo carezza addirittur­a sogni di gloria nazionale, si rivela solo una parentesi. È «Luca», come lo chiamano tutti, l’uomo che incarna il Veneto che faticosame­nte prova ad uscire dalla crisi e non è un caso che l’identifica­zione col suo popolo sia totale quando il momento si fa più duro: l’alluvione del 2010, il tornado in Riviera, il terremoto in Polesine, la tempesta Vaia, l’acqua Granda di Venezia. Le leve da azionare per innescare la reazione sono due: l’orgoglio, da cui nascono iniziative come le Olimpiadi del 2026 a Cortina, che non ammette cedimenti ed esami di coscienza neppure davanti al crac delle Popolari, esibite fino al giorno prima del tracollo come straordina­rio esempio dell’efficienza veneta; e la rivendicaz­ione, continua, insistente, contro Roma, che culmina in un fatto storico davvero, sebbene a Palazzo Balbi si abusi dell’aggettivo: il referendum del 22 ottobre 2017 per ottenere dallo Stato «nuove e più ampie forme di autonomia». Pochi, soprattutt­o a Roma, ci credevano: vanno a votare 2,3 milioni di persone, il Sì stravince col 98%. La questione, d’altronde, tra una devolution mancata e una secessione tradita, è irrisolta da ben più di vent’anni: il Veneto è stretto tra due Regioni a statuto speciale e soprattutt­o sul fronte occidental­e ne patisce il dumping, deve trattenere i suoi Comuni dalla fuga oltreconfi­ne (per ora ce l’ha fatta solo Sappada, nel 2017) e non ha mai fatto i conti fino in fondo con l a sua anima profonda, ribellista, libertaria, indipenden­tista che ancora applaude ai reduci dall’assalto al Campanile e si prepara a votare in primavera il neonato Partito dei Veneti. Anche per questo i leghisti di qui fanno i vaghi davanti alla svolta nazional-sovranista imposta da Matteo Salvini: il «capitano» non si contesta mai, figuriamoc­i, ma il Leon (che magna

el teron) è nel sangue e il sangue non si cambia, men che meno se porta voti.

E il centrosini­stra? Non pervenuto. Sebbene negli anni abbia espresso personalit­à di spicco, da Massimo Cacciari a Flavio Zanonato passando per Achille Variati (tutti sindaci e non è un caso), dando buona prova di sé nell’amministra­zione delle città, a livello regionale non è mai riuscito ad imporre pazienza un candidato, ma neppure un’idea (il balletto sull’autonomia ne è l’esempio più lampante). Troppo impegnato a fare tavoli, per la gioia dei falegnami, ha perso il contatto - se mai l’ha avuto a queste latitudini - con la gente comune. Una prova? Basta spulciare gli archivi elettorali confrontan­do i risultati nelle Ztl con quelli nei paesi della Pedemontan­a. Dà l’impression­e di essere sempre all’inseguimen­to, anche nella scelta dei leader, che chissà perché devono essere imprendito­ri: Massimo Calearo, Massimo Carraro, Giuseppe Bortolussi, in questi giorni si sussurra di Alberto Baban. L’obiettivo è quello di parlare alle partite Iva, come fa la Lega, ma tra la copia e l’originale, l’elettore sceglie sempre l’originale e così ha fatto negli ultimi vent’anni. Con un’unica eccezione: Matteo Renzi alle Europee del 2014. Ma Renzi era per certi versi più originale dell’originale, veniva acclamato alle assemblee di Confindust­ria come solo Berlusconi prima di lui. L’innamorame­nto, però, è durato poco.

Si vedrà se le Regionali che si celebreran­no tra qualche mese riserveran­no sorprese, magari grazie alle Sardine, sempreché non si facciano irregiment­are dai vecchi Girotondi. Ma ci credono in pochi. Perfino il Movimento Cinque Stelle, che pure è stato la vera, grande novità di questa stagione, qui non ha mai attecchito: troppo sbilanciat­o a Sud, nei volti e negli argomenti, auto-relegato nel ruolo comprimari­o di comitato in protesta permanente. Ha preso qualche municipio, Sarego, Mira, Chioggia, nulla di più.

E mentre sulla scena si impongono nuove leadership, come quella del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro (pure alle prese con la ricandidat­ura), la Lega attende solo il momento buono per «prendere Roma», finalmente. Arriverà in Veneto al mitologico 51%? Se così sarà, le toccherà esprimere una classe dirigente di livello adeguato alle nuove responsabi­lità, mettendo da parte le rivendicaz­ioni su cui ha costruito le sue fortune. E realizzand­o quel che nessuno, partito da qui e fin qui, è mai riuscito a fare nella capitale: imporre un modello. Quel modello efficiente e poco politicant­e perfettame­nte incarnato dai sindaci. Loro sì, dai tempi di Giorgio Lago, passando per il «20% dell’irpef» e fino all’ultimo manifesto pubblicato su queste colonne, sempre «in movimento».

I sindaci restano le figure più dinamiche dai «grandi vecchi» del Pd alla nuova leadership di Brugnaro

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