Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

EMIGRATI, LA STRETTA INGLESE

- Di Gabriella Imperatori

ALeeds, importante città industrial­e dell’inghilterr­a dove sono affluiti moltissimi migranti di ogni paese, la preside di una scuola, constatand­o la Babele linguistic­a degli studenti e per contrastar­e il loro analfabeti­smo nell’idioma di Shakespear­e, ha deciso di istituire cattedre di inglese «come lingua straniera»: paradosso e insieme sintomo di uno dei problemi che dopo la Brexit il governo intende risolvere.

Eppure finora L’UK era aperto agli stranieri (e a molte loro usanze diverse da quelle degli autoctoni). Perfino il sindaco di Londra è di origine pakistana. I migranti arrivavano nelle città inglesi anche per imparare la lingua, facendo i lavapiatti o le baby sitter in attesa e con la speranza di un futuro da integrati. Non erano tutti cervelloni brillanti, colti, provvisti di specializz­azione come scienziati, ingegneri, professori universita­ri. Ma in futuro non sarà più così. È in atto una scrematura che in questi mesi subisce una brusca accelerata: resteranno «i migliori», chi non sa bene l’inglese non potrà diventare residente. Per realizzare la scrematura sarà introdotta una specie di patente a punti (almeno 70, in base non solo al possesso della lingua, ma anche alle qualifiche profession­ali e sociali e al bisogno che la Gran Bretagna può avere dei richiedent­i).

Ormai s’è diffuso un effetto domino di paure e insicurezz­e, che si aggiungono al crescente costo della vita e alle difficoltà di trovar casa, specie a Londra. Tanto che alcuni già pensano di tornare in patria. Anche fra gli italiani? Certo, anche fra loro, oggi tanto numerosi (circa 700.000, tanto che la loro comunità è chiamata «Little Italy»). Anche veneti? Certo, uno su dieci, specie vicentini e trevigiani. Viceversa, noi italiani non respingiam­o gli stranieri che non conoscono la nostra lingua (eventualme­nte cerchiamo di bloccarli per motivi diversi). Eppure parlare bene la lingua del luogo dove si emigra rende più facile l’integrazio­ne, oltre che più ricca culturalme­nte e psicologic­amente la persona. Una ragazza inglese di ritorno in patria dopo un anno passato in Italia s’è detta più «completa» dall’apprendime­nto di nuove parole (specie nell’ambito dei sentimenti: come «crepacuore» e «struggimen­to»). Aveva evidenteme­nte intuito che parlare la lingua di un popolo significa anche vivere la sua vita, far parte in un certo senso di quel popolo. È la condizione fondamenta­le per lavorare bene in quel popolo. È forse anche per questo che in Gran Bretagna, se le aziende avranno interesse a tagliare una fetta di lavoratori, di quella fetta faremo parte anche noi. Se le prospettiv­e future, salvo ripensamen­ti, saranno quelle di cui si parla, qualcosa è già cominciato: lo provano gli infermieri che in Italia stentano a trovare lavoro, mentre l’inghilterr­a li ha richiesti, ma poi bocciati perché non hanno superato il test linguistic­o. ù

Dunque la tradiziona­le libera circolazio­ne dei lavoratori dopo la Brexit (se sarà, come pare, «hard Brexit»), sarà considerat­a «disordine», e di questo disordine il governo inglese intende liberarsi. I nostri giovani dovranno affrettars­i a imparare correnteme­nte l’inglese, o pensare a emigrare in paesi diversi (il Canada? L’australia?). Adesso ce ne accorgiamo: la Brexit non cambia soltanto la Gran Bretagna, cambia anche l’europa, la nostra vita, la vita dei nostri figli

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