Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
I cinque romanzi veneti, una classifica personale
Meneghello racconta la provincia vicentina tra umanità e dissacrazione
Non è facile la quarantena. In questi giorni non è facile nemmeno leggere, perché siamo travolti dagli affetti (finalmente), dal lavoro (per chi ha la fortuna, per più tempo e peggio che in ufficio), in case che sgorgano incombenze come geyser. E poi la quarantena è tempo brutto, sospeso, innaturale. Non c’è dubbio però che i libri ci siano in questo periodo. Più che una compagnia, sono una certezza: altri uomini hanno vissuto quello che viviamo noi, dolore, paura, speranza. La letteratura disfa la fretta, ricorda la certezza del tempo, delle stagioni: ai periodi difficili seguono quelli meravigliosi. Anche della nostra terra, del Veneto. Guardando al Novecento, la nostra è una delle migliori letterature d’italia (più maschile che femminile, senza dimenticare Drigo e Zangrandi).
I miei due preferiti (salvo un terzo che non posso svelare subito) sono liguri (Calvino, Montale), ma come non pensare a Trieste (da Saba a Svevo), ai piemontesi (il gigantesco Pavese, Levi), ai laziali (Moravia, Morante) ai siciliani (da Pirandello a Sciascia). Ma noi siamo da podio, direi, o comunque in short list (mi concedo un po’ di inglese solo in onore dell’autore «premiato» oggi). Per la quarantena, per divertirsi a ritrovare la nostra letteratura, abbiamo pensato di stilare una classifica dei cinque romanzi del Novecento Veneto. Romanzi, attenzione, e non autori. E niente poeti (sorry Mr. Zanzotto). Veneti, ossia che hanno vissuto principalmente questa terra, qualsiasi cosa abbiano scritto. È la mia classifica personale, che nasce perché ciascuno ne faccia una diversa.
Sulla classifica incide, forse, la quarantena: non è più certa del tutto, la vita alla quale quei libri parlano. Eppure la nostra letteratura ha davvero vissuto tutto, guerre e malattia, amori e perplessità, e i libri che ho scelto vanno, in fondo, letti tutti insieme. La più divertente anomalia veneta emerge subito: Vicenza, una piccola provincia, nel Novecento sprigiona un Pil (Prodotto interno letterario) superiore a qualsiasi altro in Italia (come, in fondo, anche l’altro Pil): Parise, Piovene,
Rigoni Stern, Fogazzaro, Bedeschi. E Meneghello. È proprio da lui che parto. Al quinto posto metto Libera nos a Malo. Primo libro dell’autore (emigrato in Inghilterra nel 1955 dove vivrà da professore), pubblicato nel 1963 a 41 anni, mentre nel 1964 farà seguire Piccoli maestri, una doppietta da Leo Messi. Sin dal titolo, si capisce che è libro della leggerezza, della felicità furba e dissacrante; è il gioco di parole tra la conclusione del Padre Nostro (la preghiera più bella, ma «liberaci dal male») e il paesino di Malo, alta vicentina, in cui Meneghello è nato. È il libro più intelligente, libero, divertente, del Novecento Veneto.
È un libro che gioca tra le lingue, il vicentino di Malo dell’infanzia, il greco degli studi (gli abitanti sono «meteci» o «ilioti»), l’inglese della maturità (le donne onte, incapaci di tenere la casa, sono untidy). Scrive Meneghello, e quanto è veneto (o, perlomeno, della provincia) in questo: «Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche, che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto». Una felicità di usare le parole (che in parte ha un erede, pur diversissimo, in Tiziano Scarpa) che non spiega da sola la grandezza di Meneghello. È l’umanità la cifra di Meneghello. Più che un romanzo Libera nos a Malo è una vita, fatta di pezzi contraddittori, di amici e di donne (Mino, Sandro, Guido, il Maia, Katia), di aneddoti (Pompeo che ha paura dell’acqua e dice «che bella nuotata» senza neanche bagnarsi) sullo sfondo di un mondo contadino e quasi felice, di un fascismo irriso prima che combattuto e soprattutto di un cattolicesimo potente, che pare immortale, pratico e spirituale insieme, sospeso tra il terrore per gli atti impuri (Atinpùri)e la celebre scommessa (vinta) del Cicàna di dire 350 bestemmie diverse di fila. È un libro che ha il suo pregio, ed è una cosa rarissima, proprio nell’essere molto invecchiato, nel raccontare un mondo, una spiritualità, un rapporto tra i sessi e con la natura che non c’è più, ma che tutti siamo stati.