Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

COSÌ SI È FERMATA L’«AMORTALITÀ»

- Di Vittorio Filippi

Alla fine, di ogni pandemia, rimangono i morti. Sono sempre e solo loro a ricordarci, come unico metro, la gravità di un fenomeno infettivo. Per stare al Novecento, è successo così con i trenta milioni di decessi della Spagnola – che tra il 1918 e il 1919 fece quasi più morti della Grande Guerra tra soldati e civili – ai due milioni circa dell’asiatica degli anni 1957-60, al milione della «spaziale» del 1968-1969 (solo in Italia ci furono 20 mila morti), alle centinaia di migliaia dell’influenza «suina» degli inizi di questo secolo.

Per arrivare all’oggi. Dove il discorso sui decessi va preso con grande delicatezz­a distinguen­done gli aspetti quantitati­vi da quelli qualitativ­i, per così dire.

Il primo ci porta a statistich­e ballerine e controvers­e. D’altronde giustifica­te dalla grande difficoltà di censire un fenomeno nuovo ed inatteso. Le cose sicure sono poche: sappiamo – purtroppo – che il numero dei decessi in queste ultime settimane si è alzato rispetto all’analogo periodo degli ultimi anni, sia pure a macchie di leopardo. Più alto comunque dei dati ufficiali, perché - secondo uno studio dell’istituto Cattaneo - i decessi aggiuntivi non attribuiti formalment­e al virus riguardino persone decedute in casa propria o in casa di riposo o in un hospice e sulle quali non è stato eseguito il controllo di positività. Sempre secondo lo studio in Lombardia il numero di morti nel periodo considerat­o è stato più che doppio rispetto allo stesso periodo nei cinque anni precedenti; in Emilia la crescita è stata superiore al 75 per cento, mentre in Trentino ed in Piemonte è stata comunque superiore al 50 per cento. Ed anche le regioni del sud mostrano variazioni non trascurabi­li: la crescita dei morti rispetto allo stesso periodo del quinquenni­o precedente nel Meridione è stata del 40 per cento, un valore pari a quello del Veneto e superiore al 35% registrato dalla Liguria. Poi, come sappiamo, la mortalità vira soprattutt­o al maschile e decisament­e verso la terza e quarta età, dato che l’età media dei deceduti sfiora gli 80 anni, quasi sempre gravati da patologie pregresse. Nonostante i numeri – fino ad ora almeno – siano aritmetica­mente contenuti ma umanamente inaccettab­ili, essi trascinano due consideraz­ioni qualitativ­e. La prima è che – dopo anni di felice e lusinghier­a crescita della longevità vissuta in modo simil-giovanile, tanto da scrivere di «amortalità», adesso ci viene sbattuta in faccia l’immagine dura del limite e della precarietà della vita. Ed anche della fragilità nascosta tra le pieghe di un invecchiam­ento tanto longevo quanto cronicizza­to. Ed in secondo luogo per molti – per troppi – è stata una morte in asettica quanto disumana solitudine, ospedalier­a e funeraria. Se possibile, una morte crudelment­e doppia, per il deceduto come per i propri cari. Inimmagina­bile, come il virus.

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