Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
COSÌ SI È FERMATA L’«AMORTALITÀ»
Alla fine, di ogni pandemia, rimangono i morti. Sono sempre e solo loro a ricordarci, come unico metro, la gravità di un fenomeno infettivo. Per stare al Novecento, è successo così con i trenta milioni di decessi della Spagnola – che tra il 1918 e il 1919 fece quasi più morti della Grande Guerra tra soldati e civili – ai due milioni circa dell’asiatica degli anni 1957-60, al milione della «spaziale» del 1968-1969 (solo in Italia ci furono 20 mila morti), alle centinaia di migliaia dell’influenza «suina» degli inizi di questo secolo.
Per arrivare all’oggi. Dove il discorso sui decessi va preso con grande delicatezza distinguendone gli aspetti quantitativi da quelli qualitativi, per così dire.
Il primo ci porta a statistiche ballerine e controverse. D’altronde giustificate dalla grande difficoltà di censire un fenomeno nuovo ed inatteso. Le cose sicure sono poche: sappiamo – purtroppo – che il numero dei decessi in queste ultime settimane si è alzato rispetto all’analogo periodo degli ultimi anni, sia pure a macchie di leopardo. Più alto comunque dei dati ufficiali, perché - secondo uno studio dell’istituto Cattaneo - i decessi aggiuntivi non attribuiti formalmente al virus riguardino persone decedute in casa propria o in casa di riposo o in un hospice e sulle quali non è stato eseguito il controllo di positività. Sempre secondo lo studio in Lombardia il numero di morti nel periodo considerato è stato più che doppio rispetto allo stesso periodo nei cinque anni precedenti; in Emilia la crescita è stata superiore al 75 per cento, mentre in Trentino ed in Piemonte è stata comunque superiore al 50 per cento. Ed anche le regioni del sud mostrano variazioni non trascurabili: la crescita dei morti rispetto allo stesso periodo del quinquennio precedente nel Meridione è stata del 40 per cento, un valore pari a quello del Veneto e superiore al 35% registrato dalla Liguria. Poi, come sappiamo, la mortalità vira soprattutto al maschile e decisamente verso la terza e quarta età, dato che l’età media dei deceduti sfiora gli 80 anni, quasi sempre gravati da patologie pregresse. Nonostante i numeri – fino ad ora almeno – siano aritmeticamente contenuti ma umanamente inaccettabili, essi trascinano due considerazioni qualitative. La prima è che – dopo anni di felice e lusinghiera crescita della longevità vissuta in modo simil-giovanile, tanto da scrivere di «amortalità», adesso ci viene sbattuta in faccia l’immagine dura del limite e della precarietà della vita. Ed anche della fragilità nascosta tra le pieghe di un invecchiamento tanto longevo quanto cronicizzato. Ed in secondo luogo per molti – per troppi – è stata una morte in asettica quanto disumana solitudine, ospedaliera e funeraria. Se possibile, una morte crudelmente doppia, per il deceduto come per i propri cari. Inimmaginabile, come il virus.