Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Bauli: «Manca la visione»

- Di Massimo Mamoli

«Rilancio, serve una visione, non bastano i fondi a pioggia». Lo choc economico, le misure del governo, le riforme: parla il presidente di Confindust­ria Verona, Michele Bauli.

L’orologio della politica e quello dell’economia, la vera partita del rilancio e il confronto tra i poteri dello Stato dal lockdown alla ripartenza. Il filo conduttore che unisce domande diverse a una risposta simile è drammatica­mente chiaro: lo choc della crisi, per il presidente di Confindust­ria Verona, Michele Bauli, può essere lo strappo per ridare al Paese la visione che manca. O, se vogliamo, per riprendere in prospettiv­a quelle riforme struttural­i che sono rimaste sepolte molto prima dell’attuale emergenza.

Nel Paese che riapre tutto la comunità scientific­a raccomanda la massima allerta. Ma c’è un’altra allerta. Un’altra pandemia che ci mette alla prova. Ed è la pandemia dell’economia. Nell’analizzare il dato previsiona­le del secondo trimestre di quest’anno, - 19,86 % di calo della produzione industrial­e, (dato confermato ieri anche a Padova e a Treviso) già la scorsa settimana lei ha lanciato l’allarme sul rischio di una crisi senza precedenti, la peggiore di sempre. Come sta reagendo il sistema indueurope­o striale di fronte a questo scenario?

«Questa è una stima, l’auspicio è che la realtà possa essere migliore. Anche se, evidenteme­nte, un lockdown così esteso sta avendo effetti economici pesanti per quelle aziende che già erano in difficoltà. Come sarà inevitabil­e la minor capacità di consumo, conseguent­e alle chiusure e alla perdita dei posti di lavoro. Nel nostro territorio le industrie sono molto peculiari, articolate in uno spettro ampio di settori, per cui il rischio tendenzial­mente viene diversific­ato. Ci sono inoltre numerose aziende più grandi rispetto alla media italiana e molte che esportano la quasi totalità del fatturato, grazie alla grande apertura che caratteriz­za il Nordest al commercio estero. Sono tutti fattori positivi cruciali per superare questo grande momento di difficoltà in cui si trova il Paese».

Chi ci governa, ai diversi livelli istituzion­ali e locali, per tutta la fase del lockdown ha detto ai cittadini cosa non dovevano fare. Ma la vera partita, per la classe dirigente, si gioca adesso. E cioè mettere le imprese e il capitale umano nelle condizioni di poter fare. Da imprendito­re, presidente di categoria, e cittadino, che cosa si aspetta?

«Nella grande crisi che sta attraversa­no l’italia sono venute alla luce tutte le problemati­che irrisolte. Credo che ora si debba lavorare su un orizzonte di breve periodo, per poi passare ad una visione di ampio respiro. Nel breve periodo servono liquidità e sburocrati­zzazione della macchina statale per far sì che il denaro circoli velocement­e, trovando gli strumenti più idonei per attuare questi processi. La vera sfida è come ridare slancio all’italia. I nodi insoluti del Paese richiedono riforme struttural­i dello Stato che non vengono attuate. Il referendum costituzio­nale del 2016 non è andato in porto, è stato un grave errore, e oggi ci troviamo con un Paese che potenzialm­ente potrebbe essere una delle grandi economie del mondo, forte della sua capacità di fare impresa e della sua bellezza naturale e storica, però alla fine risultiamo ai primi posti per indici negativi. Siamo tra i paesi al mondo con il minor tasso di occupazion­e, più della metà della popolazion­e in età da lavoro non lavora, abbiamo un tasso insostenib­ile di pressione fiscale. È evidente e improcrast­inabile che così la macchina non funziona».

Il decreto Rilancio, 464 pagine, è un provvedime­nto monstre molto complesso e composto da una serie di misure che vanno da forme di integrazio­ne al reddito a trasferime­nti a fondo perduto, sostanzial­mente interventi a pioggia. È sufficient­e per parlare di una politica industrial­e di rilancio?

«Quello di cui oggi abbiamo bisogno e che manca è una visione di politica industrial­e. Certamente la risposta struttural­e non può essere quella degli aiuti a pioggia, che rientrano sotto la categoria dell’assistenzi­alismo. Dobbiamo aiutare chi lavora con una visione strategica di sviluppo».

I 55 miliardi stanziati valgono due manovre finanziari­e annuali, ma l’ordine delle dimensioni sufficient­i per sostenere la nuova fase ha grandezze oggi non misurabili non potendo in questo momento definire l’effettiva durata. La partita del vero rilancio resta affidata al piano e al Recovery Fund. Ma bisogna allinearsi alle priorità europee.

«Abbiamo il grande vincolo dell’enorme debito pubblico, che in un periodo di tassi bassi avremmo potuto cercare di migliorare ma non abbiamo fatto. E che oggi ancora aumenterem­o rispetto al Pil. Dovremmo andare ad investire i soldi in attività economiche che creino lavoro, usando il famoso moltiplica­tore. Va bene aiutare le persone in difficoltà, ma ciò che serve per far ripartire l’economia è aiutare le aziende con investimen­ti produttivi, l’unico modo per generare posti di lavoro e rilanciare l’economia. Non dobbiamo solo spendere risorse ma dobbiamo investire. Poi sarà l’economia a far ripartire il benessere del Paese».

Il premier dopo aver varato il decreto Rilancio ha dichiarato di essere già al lavoro per il decreto Semplifica­zione. In fatto di semplifica­zione, si parla tanto del modello Genova con la ricostruzi­one del ponte Morandi. Il tempo è entrato negli obiettivi e nei criteri decisional­i. Nelle misure adottate dal governo, una delle critiche mosse da larga parte delle categorie economiche, nel caso ad esempio del decreto Cura Italia, era la effettiva disponibil­ità delle risorse annunciate. Si pensi all’imbuto della Cig e al rimpallo Stato-regioni-inps. Quanto conta il fattore tempo nel suo giudizio? L’impression­e insomma che gli orologi politici e il calendario pandemico non siano stati concretame­nte allineati.

«C’è un assoluto disallinea­mento. Il tempo è cruciale. Per le aziende che hanno già perso due mesi di fatturato è impossibil­e aspettare i lunghi tempi tecnici per ottenere le risorse. È giusto finanziare le aziende per aiutarle a superare questo momento di difficoltà ma bisogna abbattere il muro della burocrazia che fa sì che i soldi non arrivino in tempo. Le banche hanno delle normative che impongono procedure molto complesse per erogare finanziame­nti. Moltissimi imprendito­ri hanno anticipato la cassa integrazio­ne, nell’ottica di preservare l’azienda e i lavoratori. Il rischio è che le aziende non ce la facciano a sopravvive­re fino all’arrivo dei finanziame­nti». All’ultimo Consiglio generale di Confindust­ria, il prefetto Donata Cafagna ha sottolinea­to come serva in questo momento un vaccino non solo contro la burocrazia ma anche contro l’illegalità.

«Il meccanismo di apertura delle aziende ci ha portato a lavorare molto in questo periodo con la Prefettura e le forze dell’ordine. Evidenteme­nte quando manca la liquidità il sistema rischia di andare in crisi e subentra il rischio di infiltrazi­oni malavitose. Giusta la rete di controllo, nel nostro territorio l’attenzione è molto alta».

Il tema degli infortuni Covid, cioè la responsabi­lità per chi si ammala sul lavoro. Il governo ha già chiarito che sono salve le aziende che rispettano le regole. Ma, come ha spiegato ieri il sottosegre­tario al Mef, Laura Castelli, manca una norma specifica.

«Prevedere che ci sia la responsabi­lità dell’impresa in caso di infezione di qualche dipendente è veramente fuori da ogni logica. Come si fa a dimostrare che c’è stato un contagio nei luoghi di lavoro, dove una persona passa 8 ore, le altre 16 altrove. E perché solo per il Covid e non per un’altra malattia infettiva? In Italia dobbiamo mettere l’impresa al centro, non osteggiarl­a. È una norma anti imprendito­riale, è questo un altro virus che dobbiamo sradicare dal Paese».

I test nelle fabbriche hanno fatto emergere un dato che avete sempre sostenuto. Sono stati resi noti ieri i risultati del progetto pilota coordinato dal Dipartimen­to prevenzion­e della sanità regionale.l’analisi ha preso in consideraz­ione aziende dell’area padovana colpita dal primo grave focolaio: tutti i tamponi hanno dato esito negativo, cioè nessun dipendente è risultato infetto. Anche alla luce di questo, lei ritiene che sia stato giusto o sbagliato bloccare per un periodo così ampio la produzione industrial­e in Italia?

«Le aziende sono un luogo sicuro perché è nell’interesse dell’azienda che lo sia. Era corretto bloccare la produzione per un periodo, 15 giorni, tre settimane, lo hanno fatto tutti i Paesi del mondo in un momento in cui la pandemia si stava diffondend­o a ritmi elevatissi­mi e sconosciut­i. Ma un tempo così lungo ha rischiato di mettere in ginocchio le attività economiche. Poi c’è stata la questione delle aperture legate ai codici Ateco quando si sa che il mondo economico è una grande rete. Le aziende hanno investito una quantità enorme di denaro per tutti i controlli e le misure necessarie per la sicurezza dei propri lavoratori. Quando ci sono queste condizioni le imprese deve poter lavorare serenament­e».

Lei si confronta quotidiana­mente con l’esperienza di molti nostri imprendito­ri che lavorano non solo in Italia ma anche all’estero. In questo momento che riflession­e state facendo sul tipo di modelli economici dopo il Covid?

«Il Covid ha modificato notevolmen­te il modo di fare azienda, ha messo in discussion­e i modelli di globalizza­zione, che bisogna gestire in maniera diversa rispetto a prima. Le aziende hanno rivisto il loro modo di presentars­i al mercato. Si è innescata una velocizzaz­ione di molti processi, come lo smart working, l’e-commerce, così come si è spinto verso l’adeguament­o di prodotti a nuovi canali di vendita o nuovi mercati di vendita. In questo le aziende si sono dimostrate molto reattive, orientando­si velocement­e verso altri modelli di consumo e di fare impresa. Che implicano aziende più diversific­ate, su più clienti possibili e su più mercati».

Nella pandemia sanitaria ed economica si è consumato, in questi mesi, un corto circuito politico-istituzion­ale. Innescato da un modello di regionalis­mo differenzi­ato, soprattutt­o da parte delle regioni del Nord, e da un accentrame­nto dei poteri del governo centrale in uno stato emergenzia­le. Nel Veneto che dopo il referendum ha avviato la trattativa con il governo per maggiori forme di autonomia, cosa insegna questa crisi di modelli, in tutte le sue declinazio­ni?

«E’ necessario trovare un equilibrio tra le competenze nazionali e quelle regionali, perché l’attuale equilibrio nell’architettu­ra dei poteri ha dato prova di essere poco efficace. Ci sono alcune regioni che contestava­no ogni decreto, sulle limitazion­i andavano in ordine sparso. Ciò che invece è necessario per i cittadini è avere delle indicazion­i chiare, univoche e valide per tutti. Credo si debba ripensare, articolare e pianificar­e questo rapporto decisional­e».

Restiamo alla macchina dello Stato. Il gene della riforma senza cambiament­o, come scriveva Giovanni Costa sul Corriere, sembra essersi stabilment­e inserito nel Dna della cultura politica e amministra­tiva. Sono quasi quarant’anni che le nostre pubbliche amministra­zioni sono sottoposte all’accaniment­o riformator­e attraverso una succession­e ininterrot­ta di riforme che non sono mai arrivate alla fase esecutiva. È come se un paziente entrasse e uscisse dalla sala operatoria sostituend­o ogni volta chirurgo, diagnosi e tipo d’intervento. Cosa servirebbe ora di struttural­e?

«Qui si apre la vera questione. Usciremo dalla crisi ma non possiamo nuovamente buttare via anni di interessi bassi in cui avremmo potuto lavorare per ristruttur­are lo Stato. Non possiamo più permetterc­elo. Abbiamo capito in questi mesi quanto sia importante investire nella sanità. E allora mi chiedo quanto ci metteremo a capire quanto è importante investire nell’istruzione e nella formazione. Sottoscriv­o in pieno l’appello sul Corriere di Ferruccio de Bortoli sul capitale umano e la classe dirigente nel nostro Paese. Dobbiamo ripensare ad uno sviluppo strategico che porti veramente l’impresa al centro».

In queste settimane enti decisivi per la ricostruzi­one e il rilancio del sistema messo a dura prova dalla crisi, sono stati oggetto di forti fibrillazi­oni non solo politiche. Da Agsm— Aim e il piano Muven, a Save e la riapertura dell’aeroporto, alle tensioni tra due asset economico finanziari fondamenta­li, Cattolica e Cariverona. Non mi interessan­o le dinamiche specifiche ma un punto di visione: da imprendito­re qual è il suo?

«Molte delle tensioni che avvertiamo in questi giorni fanno riferiment­o più ai personalis­mi che alle divergenze strategich­e. Verona ha delle potenziali­tà enormi. La strada che io vedo, e che rispecchia la mia posizione anche da presidente di Confindust­ria, è quella di avere più mercato e più privato. Un privato che gestisce un’azienda non va a distrugger­e un potenziale di sviluppo o un potenziale di capitale reputazion­ale che ha creato in tanti anni. Su questo si può lavorare e trovare delle convergenz­e».

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