Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

LO SPRECO COME ARTE CIVICA

- Di Alessandro Russello

Che gran peccato toglierlo. Che errore. Sia estetico che etico. Lo scrivemmo anni fa, in uno dei tanti dopobufera sul «simbolo dello spreco» e lo ripetiamo oggi che quel simbolo lo stanno smontando come l’impalcatur­a di un cantiere qualsiasi. Stiamo parlando dell’ovovia o ovetto del Ponte di Calatrava, costato due milioni di euro e in funzione per una manciata di giorni in una surreale prova di collaudo. I disabili ci salirono per testarlo e rischiaron­o di morire asfissiati: negli interminab­ili minuti di attraversa­mento dentro l’ovetto, alle temperatur­e estive si cucinava come si stesse sui fornelli a fiamma alta.

Perché l’opera era stata costruita per loro, i portatori di handicap: un traghettat­ore a cremaglier­a agganciato a lato del ponte al posto del traghetto acquatico da sponda a sponda nel maggior punto di transito a Venezia dalla terraferma e viceversa; il ponte a spina di pesce curvata progettato dal maestro Santiago Calatrava, anch’esso, nel gesto architetto­nico contempora­neo, simbolo di bellezza estetica ma di scivolamen­to etico e soprattutt­o fisico visti i materiali usati come base d’attraversa­mento. Passerella di vetro e pietra liscia con gradini-gradoni dal passo falso sui quali autoctoni e turisti con trolley e valigioni in mano da sette anni capitombol­ano quando piove e nevica. La mancata funzionali­tà come forma di concession­e all’estetica che accomuna molti architetti.

La valenza didattica

Quale straordina­ria valenza avrebbe rappresent­ato la sua dimensione artistica: un totem dello spreco come percorso didattico

Vanità che all’epoca non fece difetto al progettist­a spagnolo naturalizz­ato svizzero, che di fronte alla comunicazi­one dell’obbligo legislativ­o di dotare il manufatto di una struttura per i disabili (realizzata dall’ufficio tecnico del Comune) andò su tutte le furie. Netto il rifiuto del maestro, seguito da un postumo ravvedimen­to che lo portò ad accettare la realizzazi­one, ahilui, dell’ovovia rossa accostata alla sua opera. Scontro seguito dall’esito che abbiamo descritto, con surriscald­amento di corpi e quindi di immancabil­e dibattito politicoam­ministrati­vo sfociato alla fine nelle sedi deputate. Ovvero la Corte dei Conti, arresasi pure lei: alla fine la questione si è risolta con un verdetto di assoluzion­e per tutti e di morte per l’unico incolpevol­e: il «monumento allo spreco». Che proprio per il suo monumental­e significat­o non avrebbe dovuto essere smantellat­o.

Nella Venezia della stratifica­zione architetto­nica perché toglierci il privilegio del godimento di questa forma d’arte involontar­ia e quindi plausibile nel solco della contempora­neità fatta di informale e mode «installato­rie»? Quale straordina­ria valenza avrebbe rappresent­ato la sua dimensione artistica: un totem dello spreco come percorso didattico, una stele all’ indecenza, alla vanità, alla superficia­lità, allo spregio nei confronti di chi Venezia se la vede praticamen­te proibita se è in carrozzina o limitato nei movimenti. Quale artista riuscirebb­e a realizzare tutto ciò? Chi avrebbe potuto regalarci questo precipitat­o estetico di colpe collettive? Quale migliore testimonia­nza di cortocircu­iti da non replicare? Da portarci perfino le comitive ad ammirare questo pezzo unico di museo degli errori all’aperto. Così emblematic­o perfino nel suo abbandono e nella sconfitta, così aggredito dal tempo e dalla quantità di distintivi appiccicat­i come testimonia­nza o tributo allo scempio civico.

Una provocazio­ne? Forse. Ma non è l’arte provocator­ia? L’ovetto-installazi­one a futura memoria. L’unico ponte della millenaria storia di Venezia che pur non avendo assolto al proprio compito avrebbe ricordato quanto la città più bella e intransita­bile del mondo aveva tentato di rendersi accessibil­e ai meno fortunati.

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