Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
LO SPRECO COME ARTE CIVICA
Che gran peccato toglierlo. Che errore. Sia estetico che etico. Lo scrivemmo anni fa, in uno dei tanti dopobufera sul «simbolo dello spreco» e lo ripetiamo oggi che quel simbolo lo stanno smontando come l’impalcatura di un cantiere qualsiasi. Stiamo parlando dell’ovovia o ovetto del Ponte di Calatrava, costato due milioni di euro e in funzione per una manciata di giorni in una surreale prova di collaudo. I disabili ci salirono per testarlo e rischiarono di morire asfissiati: negli interminabili minuti di attraversamento dentro l’ovetto, alle temperature estive si cucinava come si stesse sui fornelli a fiamma alta.
Perché l’opera era stata costruita per loro, i portatori di handicap: un traghettatore a cremagliera agganciato a lato del ponte al posto del traghetto acquatico da sponda a sponda nel maggior punto di transito a Venezia dalla terraferma e viceversa; il ponte a spina di pesce curvata progettato dal maestro Santiago Calatrava, anch’esso, nel gesto architettonico contemporaneo, simbolo di bellezza estetica ma di scivolamento etico e soprattutto fisico visti i materiali usati come base d’attraversamento. Passerella di vetro e pietra liscia con gradini-gradoni dal passo falso sui quali autoctoni e turisti con trolley e valigioni in mano da sette anni capitombolano quando piove e nevica. La mancata funzionalità come forma di concessione all’estetica che accomuna molti architetti.
La valenza didattica
Quale straordinaria valenza avrebbe rappresentato la sua dimensione artistica: un totem dello spreco come percorso didattico
Vanità che all’epoca non fece difetto al progettista spagnolo naturalizzato svizzero, che di fronte alla comunicazione dell’obbligo legislativo di dotare il manufatto di una struttura per i disabili (realizzata dall’ufficio tecnico del Comune) andò su tutte le furie. Netto il rifiuto del maestro, seguito da un postumo ravvedimento che lo portò ad accettare la realizzazione, ahilui, dell’ovovia rossa accostata alla sua opera. Scontro seguito dall’esito che abbiamo descritto, con surriscaldamento di corpi e quindi di immancabile dibattito politicoamministrativo sfociato alla fine nelle sedi deputate. Ovvero la Corte dei Conti, arresasi pure lei: alla fine la questione si è risolta con un verdetto di assoluzione per tutti e di morte per l’unico incolpevole: il «monumento allo spreco». Che proprio per il suo monumentale significato non avrebbe dovuto essere smantellato.
Nella Venezia della stratificazione architettonica perché toglierci il privilegio del godimento di questa forma d’arte involontaria e quindi plausibile nel solco della contemporaneità fatta di informale e mode «installatorie»? Quale straordinaria valenza avrebbe rappresentato la sua dimensione artistica: un totem dello spreco come percorso didattico, una stele all’ indecenza, alla vanità, alla superficialità, allo spregio nei confronti di chi Venezia se la vede praticamente proibita se è in carrozzina o limitato nei movimenti. Quale artista riuscirebbe a realizzare tutto ciò? Chi avrebbe potuto regalarci questo precipitato estetico di colpe collettive? Quale migliore testimonianza di cortocircuiti da non replicare? Da portarci perfino le comitive ad ammirare questo pezzo unico di museo degli errori all’aperto. Così emblematico perfino nel suo abbandono e nella sconfitta, così aggredito dal tempo e dalla quantità di distintivi appiccicati come testimonianza o tributo allo scempio civico.
Una provocazione? Forse. Ma non è l’arte provocatoria? L’ovetto-installazione a futura memoria. L’unico ponte della millenaria storia di Venezia che pur non avendo assolto al proprio compito avrebbe ricordato quanto la città più bella e intransitabile del mondo aveva tentato di rendersi accessibile ai meno fortunati.