Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
«Quella volta che portai il riscatto per Celadon»
«Fui io a portare i soldi del riscatto per la liberazione di Carlo Celadon». Lo sostiene - a trent’anni dalla liberazione del vicentino - uno degli uomini finiti nell’inchiesta della Dda di Trento, intercettato mentre ne parla con un altro indagato.
Angelo Zito era «il picchiatore» del clan. Secondo la Dda, se qualcuno non saldava un debito era a lui che veniva affidato il lavoro sporco. Almeno quando, con la complicità del suo compare Giuliano Callipari, avrebbe richiuso un uomo in un magazzino minacciando di prenderlo a martellate se non pagava.
Ora, questo 62enne nato a Cosenza ma che da tempo abitava a Pergine Valsugana (in provincia di Trento), è in carcere accusato dalla Dda di reati che vanno dal tentato sequestro di persona alla tentata estorsione. Gli investigatori sono convinti di avere a che fare con un tipo pericoloso, anche sulla scorta di alcuni dialoghi intercettati nel corso dell’indagine. Il più inquietante risale al 13 ottobre del 2018, quando Zito e l’amico Callipari (pure lui arrestato) stanno compiendo un lungo viaggio in auto, diretti in Calabria. Giunti nei dintorni di Brescia, i due ricordano il rapimento dell’imprenditore Giuseppe Soffiantini, avvenuto nel 1997 proprio in un paesino della provincia lombarda. Da lì, Zito si lascia andare a una confidenza: svela di aver avuto un ruolo nientemeno che nel pagamento del riscatto per la liberazione di Carlo Celadon, sequestro avvenuto ad Arzignano (Vicenza) nel 1988 e organizzato - guarda caso - da uomini legati alla ‘ndrangheta. Fu la prigionia più lunga della Storia italiana: trascorsero 831 giorni prima che i genitori riuscissero a riabbracciare il ragazzo.
Nelle carte dell’inchiesta trentina, Zito ricorda che gli investigatori bloccarono i conti corrente della famiglia Celadon e quindi i soldi per il riscatto arrivarono da un importante industriale vicentino. La vittima - spiega l’indagato a Callipari - era tenuta prigioniera in un ovile vicino allo svincolo per Pizzo Calabro. «La valigia con i soldi l’hanno lasciata là, in una scarpata», sostiene. E fin qui il racconto viene ritenuto credibile, visto che fu lo stesso Carlo Celadon a raccontare di essere stato trasferito più volte da un nascondiglio all’altro e che effettivamente uno di questi era un ovile
«dal quale si sentiva il rumore di automobili».
Ma il denaro contenuto in quella valigetta, era solo una prima tranche del riscatto. Altri soldi, stavolta infilati in una busta, Zito racconta di averli portati lui stesso in automobile fino al Sud. «Li ho nascosti sotto il sedile», avrebbe confidato a Callipari. E, giunto a destinazione, li avrebbe consegnati a un certo «Peppe Pesce».
A distanza di trent’anni, non può dimenticare il lungo viaggio e quella busta con le banconote che servivano a riscattare la liberazione di Celadon. Anche perché - prosegue scocciato non fu mai pagato per quel suo «lavoro».
Nè Angelo Zito e neppure questo fantomatico Giuseppe Pesce risultano essere finiti nel mirino di chi all’epoca indagò sul sequestro del giovane arzignanese. E probabilmente non si saprà mai se il racconto fatto dall’uomo sia autentico oppure sia soltanto una millanteria per fare «bella figura» con l’amico: secondo la Dda e la polizia, infatti, l’intercettazione può essere utile solo per attribuire un profilo di pericolosità al sessantenne ma non potrà consentire una riapertura dell’indagine sul rapimento di Carlo Celadon, visto che l’eventuale reato commesso da Angelo Zito sarebbe ormai prescritto.