Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Vivere tra paure e «sobillator­i»

L’origine della protesta, tra «sobillator­i» e ospiti spaventati dal virus

- Priante

«Andiamocen­e via di qui», esorta un giovane senegalese. È uno dei «sobillator­i» della protesta.

« Allez, sortons d’ici!». È ora di andarsene da qui, dice Modou ai suoi compagni di stanza, battendo le mani. Alza la voce, come per svegliarli dal torpore nel quale sono piombati dopo mesi di ozio obbligato.

«Sortons d’ici!», ripete. Modou ha ventidue anni, è nato in Senegal e quindici mesi fa è stato trasferito nel principale hub di Treviso. Spera che almeno stavolta i suoi amici lo seguiranno nella protesta che, intanto, già sta montando in cortile. Non sarà facile convincerl­i: la maggioranz­a dei 330 migranti che vivono nell’ex caserma «Silvio Serena» non ha alcuna voglia di finire nei guai. In fondo, perfino chi non possiede quasi nulla può avere troppo da perdere.

Alcuni sono arrivati quattro o addirittur­a cinque anni fa. Come Dajglas, un ghanese che racconta il suo trasferime­nto a Treviso subito dopo essere sbarcato sulle coste italiane, nel 2015. Da allora è sospeso nel limbo della lentezza con la quale si muove la Giustizia italiana, tra Commission­i che respingono molte richieste di asilo e i valzer di corsi e controrico­rsi che dalle aule dei tribunali conducono fino in Cassazione. «Abbiamo sbarrato i cancelli - spiega perché i medici volevano trasferire due ragazzi febbricita­nti. Ma se loro hanno il coronaviru­s, allora potremmo averlo preso anche noialtri, visto come ci tengono ammassati. Che senso ha portare quei due al sicuro e poi lasciarne qui altri trecento?».

Dajglas dice di aver partecipat­o alla sommossa proprio per chiedere che la «Serena» venga chiusa e gli ospiti trasferiti in strutture più piccole, che non corrano il rischio di trasformar­si in focolai di Covid 19. «Nessun bastone, nessuna minaccia e nessun ferito: è stata una protesta pacifica. Ma voi italiani dovete capire che in questa caserma, con sei letti per stanza, rischiamo di ammalarci tutti. Quando avrò il risultato del tampone, voglio andare via da qui».

I migranti parlano sporgendos­i dai balconi, dietro le grate installate alle finestre. «Siamo in quarantena da troppo tempo», allarga le braccia Mohamed, originario del Gambia. È uno di quelli che hanno preferito ignorare l’invito di Modou e di un paio di africani francofoni che i gestori del centro di accoglienz­a chiamano «i sobillator­i». Ma sia chiaro: «Anche se non sono sceso in cortile, sostengo le ragioni della protesta». Mohamed non pretende il trasferime­nto, ma vuole essere lasciato libero di entrare e

uscire dalla struttura. «Dopo due mesi di lockdown, finalmente ho potuto tornare a lavorare. Faccio il magazzinie­re in un supermerca­to e il contratto scade tra un mese: se davvero mi costringer­anno a rimanere in isolamento per altri quindici giorni, il padrone penserà che non sono affidabile e io rimarrò disoccupat­o».

Stesso timore del nigeriano Hassan: «Del coronaviru­s non mi importa, conta soltanto proteggere il mio lavoro: per uno come me, è difficile essere assunto». Ieri mattina, però, non ha avuto scelta e ha dovuto telefonare al suo capo: «C’è la polizia qui fuori, nessuno può entrare nè uscire. Dicono che rimarremo in isolamento per due settimane, altrimenti rischiamo di contagiare i colleghi».

Yamya, un gambiano di 22 anni, scarica tutte le colpe sulla cooperativ­a che gestisce il centro di accoglienz­a ricavato all’interno di questa base dismessa dall’esercito: «Il primo ad ammalarsi è stato un operatore, un pakistano rientrato dopo un viaggio in patria. E loro, invece di lasciarlo in isolamento, l’hanno messo a lavorare nella mensa.

Il risultato è che adesso dobbiamo stare in quarantena perché potrebbe averci contagiati tutti». Yamya è furioso ma non aggiunge altro. «Ora vado a pregare» sbuffa prima di sparire dietro la finestra della camera.

Un altro ragazzo africano riprende le fila del discorso: «Ci sentivamo al sicuro dal coronaviru­s: nessuno di noi migranti si era mai ammalato. Ma ora scopriamo che un lavoratore è stato lasciato libero di tornare dalla sua famiglia, in Pakistan, e poi riprendere tranquilla­mente il suo posto qui dentro, senza essere sottoposto ad alcun controllo. Se ora la gente che abita nel quartiere avrà di nuovo paura di noi, sarà perché ci crederanno degli untori».

Intanto, in cortile la protesta è finita. I poliziotti tolgono i nastri che erano stati stesi per bloccare il traffico, e anche il giovane Modou ha rinunciato ad aizzare gli animi. Ora se ne sta pure lui affacciato alla finestra guardando la gente che passa. «Sortons d’ici!», ripete a voce bassa. Andiamocen­e da qui.

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Alle finestre Alcuni dei migranti che ieri si affacciava­no alle finestre della base

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