Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Marco che non esce da sette anni «Vivo al pc, salvate quelli come me»

Marco, l’ex vittima di bullismo che vive da auto-recluso

- Di Andrea Priante

Marco sta per festeggiar­e il suo 25mo compleanno. È da quando ne aveva 18 che non esce di casa e trascorre le giornate al computer.

«Restando qui, non mi vede nessuno. Quindi, in pratica, io non esisto e sono soltanto un fantasma».

In realtà Marco Brocca è un ragazzone in carne e ossa, alto due metri, che il 31 luglio compirà 25 anni. Vive con la madre Patrizia e con la sorella in una casa alla periferia di Treviso dove ha trasformat­o la taverna nel suo rifugio. Sotto la finestra, c’è la scrivania con un computer sempre accesso e Marco, in pratica, vive lì dentro. «Ho smesso di uscire quando avevo 18 anni» ci racconta. Il suo lockdown è iniziato nel 2013 e non è mai finito: dopo mesi, siamo le prime persone che accoglie in casa.

Quelli come lui, li chiamano hikikomori, che tradotto significa «stare in disparte». Un termine coniato in Giappone, dove alla fine degli anni Novanta si accorsero che un numero sempre maggiore di ragazzini smetteva di uscire dalla propria cameretta. Ora il fenomeno si è diffuso anche in Italia. «In Veneto siamo in contatto con oltre ottanta giovani che hanno intrapreso la strada del ritiro sociale, ma il loro numero è molto superiore» assicura Laura Besazza, presidente regionale della Onlus Genitori Hikikomori Italia. «Non è una patologia psichiatri­ca - spiega - ma una reazione di autoesclus­ione da una società con pressioni e aspettativ­e enormement­e superiori alle capacità che questi ragazzi hanno di affrontarl­e». Molti di loro, prima di ritirarsi, spiccavano come «numeri primi»: ragazzini che eccellono nello sport, nella musica, negli studi ma che gradualmen­te abbandonan­o la squadra di calcio, la scuola, gli amici, fino a rintanarsi in una stanza. Come ha fatto Marco in questa taverna di Treviso.

«Qui trascorro tutta la giornata, salgo di sopra solo per dormire e mangiare, ma a volte ceno direttamen­te davanti al computer». Le relazioni umane - a esclusione di alcuni vecchi amici d’infanzia - sono quasi tutte virtuali. «Grazie a internet e ai videogioch­i in questi anni ho conosciuto persone da ogni parte del mondo. Lo so che non è la stessa cosa che abbracciar­e o guardare negli occhi un vero amico ma per me è ancora difficile fidarmi delle persone...».

Per capire come Marco sia diventato un hikikomori, occorre tornare a quand’era bambino. «Soffrivo di un grave problema di dermatite e per questo

I campioni di videogame Gli altri bimbi mi escludevan­o, poi sono arrivati i bulli. Passava il tempo e mi sentivo sbagliato Oggi alleno i campioni di videogame

i miei coetanei mi escludevan­o. Crescendo, sono arrivati i bulli. Avevo la pelle rovinata, ero magrissimo e con delle profonde occhiaie dovute al fatto che la notte non dormivo per le irritazion­i: mi soprannomi­narono “Zombie”. Più passava il tempo, più mi sentivo “sbagliato”. E anche i professori sembravano non capire i miei problemi, mi trattavano come uno scansafati­che».

A tredici anni i genitori gli regalano il suo primo computer. «All’inizio non lo usavo granché. Poi cominciai a giocare a World of Warcraft: ti crei un personaggi­o ed entri in un mondo fantascien­tifico. C’eramettere no migliaia di giocatori e, specie all’epoca, nessuno ti chiedeva la foto né il tuo vero nome. Fu una sensazione bellissima: lì non venivo giudicato per il mio aspetto e finalmente potevo sentirmi uguale a tutti gli altri».

A quel punto, Marco trascorre tutto il tempo libero al computer. E mentre i suoi genitori si separano, matura la decisione di interrompe­re gli studi. «Era inutile continuare: alla sola idea di andare a scuola, stavo male. Mi sentivo come un vetro rotto al quale nessuno dava una mano a rimettere insieme i pezzi. Così mi sono auto-escluso da tutto, che poi è il modo più efficace per non per

alle persone di ferirmi come hanno fatto tante volte, in passato».

Oggi questo giovane trevigiano ha un lavoro molto particolar­e: «Mi pagano per scovare e poi allenare i campioni di esport». Può sembrare incredibil­e ma esistono veri e propri tornei di videogame dove i partecipan­ti si contendono premi per milioni di dollari. «Gli specialist­i sono soprattutt­o nordeurope­i, anche se non mancano gli italiani. Il mio compito è mettere insieme dei team e prepararli ad affrontare al meglio i vari livelli di sfida. Il tutto, ovviamente, rimanendo ciascuno a casa propria». Fino a tre anni fa, non aveva mai sentito la parola hikikomori. «Me ne parlò un ragazzo, una sera. Mi documentai su internet e all’improvviso fu come se mi fossi tolto un peso: c’erano altre persone come me, non ero l’unico alieno su questa terra».

Oggi, grazie al sostegno di un terapeuta e dell’associazio­ne Hikikomori Italia, Marco dice di sentirsi più sicuro di se stesso anche se è convinto che sua madre sia l’unica persona in grado di capire davvero ciò che gli sta capitando. Patrizia allarga le braccia: «Non è semplice essere il genitore di un ragazzo auto-recluso. Mi sentivo in colpa per non aver saputo “salvarlo” e il suo era un mondo che, all’inizio, non riuscivo a comprender­e. Negli anni, ho cercato di avvicinarm­i a lui e oggi ho imparato ad accettarlo. Vorrei aiutarlo a costruirsi un futuro che, spero, lo vedrà fuori da quella stanza».

E Marco, come si vede tra dieci anni? «La sera, a letto, me lo chiedo spesso. Adesso non sono felice, spesso mi sento solo. Eppure non so immaginare se mi ritroverò ancora qui dentro, oppure in un bar con gli amici. Spero però che la mia esperienza serva ad altri ragazzi, affinché trovino il coraggio di farsi aiutare prima che sia troppo tardi. Ma soprattutt­o, voglio che la società si accorga di noi hikikomori, che sappia che esistiamo e che siamo sempre di più. Perché quel giorno, finalmente, non saremo più dei fantasmi».

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(foto Toniolo) In taverna Marco Brocca, 25 anni, davanti al computer nella sua casa

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