Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
AUTONOMIA E METROPOLI POST COVID
Pochi mesi di pandemia da coronavirus e l’autonomia regionale ha compiuto, di fatto, più passi in avanti che nei vent’anni passati dalla riforma del titolo V della Costituzione in poi. Meglio: negli scorsi tre mesi si è vista al lavoro la Repubblica, quella che la Costituzione dice fatta di Stato e Regioni, oltre che di autonomie locali (Comuni, Province e Città Metropolitane). Una Repubblica mossa nelle scorse settimane da esercizi di autonomia regionale né pretesa in esclusiva né concessa obtorto collo, ma esercitata sul campo. Chi avrebbe mai immaginato qualche tempo fa che le linee guida governative per la riapertura delle scuole venissero discusse dalle Regioni fino a far tremare la poltrona della ministra, per poi trovare la soluzione condivisa? La drammaticità delle decisioni da prendere nell’introdurre il lockdown (fase uno), nell’organizzare l’uscita dallo stesso (fase due), e oggi per la riapertura settembrina delle scuole, ha costretto tutti ad assumersi responsabilità senza precedenti. All’inizio palleggiate tra centro e periferia, ma poi negoziate in un quadro di migliori pratiche scambiate lealmente in un sistema di competenze condivise.
Lo Stato ha capito che non poteva fare tutto da solo e le Regioni che avevano bisogno di agire in un quadro unitario. I professionisti del dibattito sull’autonomia regionale si sono in un primo momento stracciate le vesti, denunciando, gli uni, l’attentato all’unità nazionale e, gli altri, inaccettabili ingerenze centralistiche.
Poi la posta in gioco - la vita degli italiani a rischio Covid-19 e il loro benessere aggredito dal lockdown - ha spazzato via ogni ridicolo dubbio. Occorreva, come occorre, «condividere» e articolare le risposte per tener conto della oggettiva diversa virulenza con la quale il Covid si è abbattuto sulla Lombardia e le altre regioni del nord rispetto a quelle del sud, senza peraltro risparmiare queste dai sacrifici da lockdown. È qui che ognuno, Stato e Regioni, ha fatto la sua parte. Con il Veneto che ha dimostrato, alla grande, come una autonomia ben esercitata valga mille volte quella litigata sulle formule esoteriche della «ulteriore autonomia differenziata».
Ma c’è ancora uno sforzo da fare per sfruttare appieno l’architettura costituzionale nella fase di rilancio post pandemico. Il rilancio vero, quello che per aver successo – agganciare la crescita italiana a quella europea lungo i sentieri delle transizioni digitale e ambientale - ha bisogno anche di una articolazione territoriale gerarchica che solo le Regioni (e le Città metropolitane) possono realizzare.
Una articolazione che passa per la valorizzazione delle città metropolitane, magari ridisegnate, per creare i luoghi ad alta intensità insediativa e concentrazione di capitale fisso sociale che restano i soli capaci di agganciare con le «produzioni di domani» il trend di crescita europeo, interrompendo così quel declino della produttività che ci affligge da decenni. Tema finora sottovalutato sia dal «piano Colao» sia dagli Stati generali voluti da Conte. Oggi noi usciamo dal lockdown con le ammaccature da Covid-19 dell’unica città, Milano, che fino a ieri reggeva la competizione nell’arcipelago urbano europeo. Problema grave. Da risolvere adattando alla bisogna, trasformando in «macchine produttive», gli organismi metropolitani del nord, del centro e del sud. Con una collaborazione Stato-regioni ancor più forte di quella generata dalla pandemia. A Nordest la sola soluzione sta nel costruire la grande città post-covid attorno a Venezia, Padova e Treviso.
È da sperare che Stato, Regione del Veneto e Città metropolitana affrontino anche questo tema al più presto. Il rilancio dell’italia e del Nordest resta in ansiosa attesa.