Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Paola e la Strage di Ustica Una storia mai raccontata

Veronese, aveva 39 anni. «Non c’era posto sul DC9, poi un uomo rinunciò a partire e mamma potè salire»

- Priante

«Mamma su quel DC9 Itavia non doveva neppure salirci: quando cercò di prenotare i biglietti per sé e per sua sorella, i posti erano già tutti occupati».

Poi cosa accadde?

«Le telefonaro­no un paio di giorni prima della partenza: un passeggero aveva disdetto, poteva imbarcarsi e raggiunger­e Palermo. Doveva venire da me, la sua bambina».

Ci sono storie destinate a rimanere nascoste per sempre, trascinate nel fondo di quel mare di morti e dolore che è stata la strage di Ustica. Alcune, però, possono tornare a galla per essere raccontate e magari servire da monito affinché non ricapiti mai più nulla del genere. Perfino a quarant’anni di distanza.

«È la prima volta che ne parlo a un giornalist­a», spiega Rosalia Pirrotta. Aveva appena 8 anni, il 27 giugno del 1980. Quel giorno sua madre Paola Papi, una 39enne veronese che lavorava come impiegata alla Bauli, salì sul DC9 che da Bologna doveva atterrare a Palermo assieme ad altri 76 passeggeri, tra cui tredici bambini. Quattordic­i di quei viaggiator­i provenivan­o dal Veneto, chi perché c’era nato altri perché ci lavorano o si erano appena trasferiti. Seduti ai loro posti, c’erano la trevigiana Cinzia Benedetti e suo marito Luigi Andres; il fotografo di Montegrott­o Giuseppe Lachina e sua moglie Giulia Reina; o il piccolo Francesco Di Natale, che aveva solo 2 anni e morì con mamma Daniela Valentini, di Dolo. E c’era Paola, che si era innamorata di un siciliano conosciuto a una Fiera e dalla loro relazione («Tra mamma e papà fu un colpo di fulmine») nacque Rosalia.

Poi l’amore finì, e si separarono. «Lei rimase a Verona, la sua città. Andò a lavorare come segretaria alla Bauli, cercò di ricostruir­si una vita. Io rimasi con lei nella città di Giulietta e Romeo, studiavo lì e quando finiva la scuola raggiungev­o papà a Palermo per trascorrer­e con lui qualche settimana».

Per questo sua madre era su quel volo?

«Quel giorno mamma stava venendo a riprenderm­i: saremmo dovute tornare insieme in Veneto».

La sfortuna fu che si liberò quel posto...

«Qualche anno fa aprii il giornale e vi trovai l’intervista a un signore. Si definiva un miracolato, raccontò di aver prenotato il volo ma di aver rinunciato all’ultimo per via di un contrattem­po, non ricordo neppure quale fosse. Cerchi di capirmi: io so bene che quell’uomo non ha alcuna colpa per ciò che poi è accaduto, e so anche che il destino di ciascuno di noi è già scritto e le cose vanno come devono andare...».

Eppure...

«Eppure non riuscii a trattenere la rabbia: il suo miracolo, aveva condannato mia madre e, con lei, anche me che ero solo una bambina».

A condannare sua madre e gli altri passeggeri del DC9 fu quasi certamente un attacco di natura militare...

«Sì, anch’io credo alla ricostruzi­one del Mig libico che “aggancia” l’aereo, dell’arrivo di un Caccia e poi del missile che, invece di colpire il vero obiettivo, finisce contro il volo Itavia carico di civili. E credo anche che la verità la conoscano in tanti e che ancora oggi, a quarant’anni di distanza, ci sia chi fa di tutto per nasconderl­a».

La procura di Roma ha un fascicolo aperto per chiarire cause e responsabi­lità. Nel frattempo, pochi anni fa il tribunale civile di Palermo ha condannato i ministeri di Difesa e Trasporti a risarcire alcune vittime. Per lei il giudice ha stabilito un indennizzo di quasi mezzo milione di euro...

«Partiamo dal presuppost­o che nessuna cifra potrà mai restituire a quella bimba di otto anni la sua mamma. Ma la sa la cosa più vergognosa? Che lo Stato finora mi ha pagato appena un quarto di quanto doveva. Mi hanno detto che al momento non ci sono soldi per coprire l’intero importo... A me, pare una follia».

Cosa ricorda di quei giorni?

«Mio padre partì immediatam­ente per seguire le ricerche: i parenti dovevano riconoscer­e i cadaveri che venivano recuperati. Per quattro giorni di fila non fece altro che osservare brandelli dei corpi, cercando quello di mamma. Purtroppo non fu mai ritrovata e nella cappella di famiglia c’è soltanto una sua fotografia: i colpevoli di quella strage mi hanno tolto anche la possibilit­à di piangere sulla sua tomba».

Come si supera un dramma di questa portata?

«Non si supera. Papà fece il possibile per non farmi mancare nulla ma non è facile fare i conti con un genitore che ti viene strappato in quel modo. Ci penso tutti i giorni. Oggi, a 48 anni, ho una figlia e sono terrorizza­ta all’idea che, se mi capitasse qualcosa, lei sarebbe costretta a crescere senza la sua mamma, come capitò a me».

Dopo quarant’anni di depistaggi e silenzi, c’è ancora spazio per ottenere giustizia?

«Io ci spero. L’italia è piena di misteri e la Strage di Ustica è uno dei più grandi e dolorosi. Ma noi familiari meritiamo giustizia: prima o poi qualcuno ci dovrà dire perché sono morte quelle persone, quei bambini. I colpevoli non possono rimanere impuniti per sempre».

Il «miracolato» «Vidi quell’uomo sul giornale, si definiva un miracolato. Ma mia madre era morta»

Giustizia «Non rinuncio alla Giustizia: un giorno si sapranno i nomi dei responsabi­li»

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In alto, Paola Papi stringe tra le braccia la figlia. A destra, Rosali Pirrotta oggi. Sopra, i resti del DC9
La vittima In alto, Paola Papi stringe tra le braccia la figlia. A destra, Rosali Pirrotta oggi. Sopra, i resti del DC9

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