Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
L’ELEFANTE NELL’ACQUA DI VENEZIA
Salvo intese tecniche successive —la formula con la quale tutti i decreti legge in era Covid hanno vissuto qualche giorno da ballon d’essai, eventualmente correggibile all’ultimo momento — il «decreto agosto» dovrebbe dare finalmente un assetto istituzionale stabile (a barriere MOSE completate) alla salvaguardia di Venezia. Infilato tra mille altre disposizioni di sostegno e rilancio post pandemico, l’articolo che detta le misure per la salvaguardia della «zona lagunare» di Venezia e istituisce l’autorita per la laguna appare, al momento, come un elefante nella cristalliera. In più un elefante che a differenza dei suoi simili si mostra pericolosamente smemorato. Elefante statale nella cristalliera istituzionale veneziana perché sposta i poteri di gestione di un’area segnata dal bene culturale «Venezia e la sua laguna» in senso statale, relegando Regione del Veneto e Città metropolitana a ruolo di comprimari. Decisione inattesa, perché oggi è ancora vigente la legge del 2014 che, al contrario, stabiliva di affidare la salvaguardia della laguna alla Città metropolitana di Venezia e/o perché il testo dell’accordo sull’autonomia differenziata in discussione tra Regione del Veneto e Governo prevede sì una Autorità per la laguna, ma «a regia regionale». Oggi invece abbiamo la proposta di una Autorità sottoposta ai «poteri di indirizzo» del MIT (Ministero delle Infrastrutture) e, quindi totalmente subordinata a questo.
Per capirci un assetto simile a quello dell’autorità di sistema portuale del mar Adriatico settentrionale dove — a prescindere dal merito delle questioni in gioco— abbiamo visto di recente confrontarsi Stato, da un lato, e Regione e Città Metropolitana, dall’altro, e finito col «licenziamento» dei rappresentanti locali. Il pendolo spostato a favore dello stato non costituirebbe di per sé un problema, anzi, se questo preludesse però a una maggior assunzione di responsabilità statale verso la questione Venezia nella sua complessità. Una questione fatta di salvaguardia e rivitalizzazione socioeconomica, che la Repubblica si è impegnata di fronte al mondo a perseguire per legge . Purtroppo non è così. Perché l’elefante statale, così come raccontato nel «decreto agosto», mostra già di essersi dimenticato che il sistema MOSE non si riduce alle sole barriere mobili, che sono tali anche per non impedire il vitale accesso delle navi al porto: attività divenuta il perno quantitativamente più importante di una economia veneziana non più affidata al solo turismo, reso fragile dal Covid. È per questo che fin dal 2003 si era previsto di completare il sistema con un adeguamento della conca di navigazione a Malamocco e dal 2013 con l’avvio della realizzazione di una piattaforma portuale d’altura, che pur sviluppando il porto risparmiava alla laguna impatti ambientali alla lunga insopportabili. Progetto che per questo si è guadagnato fin dal 2015 una facile valutazione di impatto ambientale positiva. Ma, più in generale, il problema sta nel fatto che la concezione statale della salvaguardia è tutta fisica e ambientale, attenta esclusivamente all’urbs. Foriera di quel «conserva il monumento Venezia e fallo vedere al mondo» che ha prodotto il modello di sovraturismo crollato con il Covid. Un modello incapace di fatto, come dimostra la storia veneziana degli ultimi 50 anni, di coinvolgere nel mantenimento del bene culturale Venezia la sua civitas, che ha per questo subito una diaspora demografica verso la terraferma, casa dei veneziani invisibili, e una diaspora economica verso Padova e Treviso.
Con le quali Venezia potrebbe invece salvaguardando e rivitalizzando sé stessa-regalare al Nordest il motore post-covid del quale ha bisogno. Avremo l’intelligenza e la volontà di allargare a questi temi il dibattito che accompagnerà la conversione in legge del «decreto agosto»?