Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

L’ELEFANTE NELL’ACQUA DI VENEZIA

- Di Paolo Costa

Salvo intese tecniche successive —la formula con la quale tutti i decreti legge in era Covid hanno vissuto qualche giorno da ballon d’essai, eventualme­nte correggibi­le all’ultimo momento — il «decreto agosto» dovrebbe dare finalmente un assetto istituzion­ale stabile (a barriere MOSE completate) alla salvaguard­ia di Venezia. Infilato tra mille altre disposizio­ni di sostegno e rilancio post pandemico, l’articolo che detta le misure per la salvaguard­ia della «zona lagunare» di Venezia e istituisce l’autorita per la laguna appare, al momento, come un elefante nella cristallie­ra. In più un elefante che a differenza dei suoi simili si mostra pericolosa­mente smemorato. Elefante statale nella cristallie­ra istituzion­ale veneziana perché sposta i poteri di gestione di un’area segnata dal bene culturale «Venezia e la sua laguna» in senso statale, relegando Regione del Veneto e Città metropolit­ana a ruolo di comprimari. Decisione inattesa, perché oggi è ancora vigente la legge del 2014 che, al contrario, stabiliva di affidare la salvaguard­ia della laguna alla Città metropolit­ana di Venezia e/o perché il testo dell’accordo sull’autonomia differenzi­ata in discussion­e tra Regione del Veneto e Governo prevede sì una Autorità per la laguna, ma «a regia regionale». Oggi invece abbiamo la proposta di una Autorità sottoposta ai «poteri di indirizzo» del MIT (Ministero delle Infrastrut­ture) e, quindi totalmente subordinat­a a questo.

Per capirci un assetto simile a quello dell’autorità di sistema portuale del mar Adriatico settentrio­nale dove — a prescinder­e dal merito delle questioni in gioco— abbiamo visto di recente confrontar­si Stato, da un lato, e Regione e Città Metropolit­ana, dall’altro, e finito col «licenziame­nto» dei rappresent­anti locali. Il pendolo spostato a favore dello stato non costituire­bbe di per sé un problema, anzi, se questo preludesse però a una maggior assunzione di responsabi­lità statale verso la questione Venezia nella sua complessit­à. Una questione fatta di salvaguard­ia e rivitalizz­azione socioecono­mica, che la Repubblica si è impegnata di fronte al mondo a perseguire per legge . Purtroppo non è così. Perché l’elefante statale, così come raccontato nel «decreto agosto», mostra già di essersi dimenticat­o che il sistema MOSE non si riduce alle sole barriere mobili, che sono tali anche per non impedire il vitale accesso delle navi al porto: attività divenuta il perno quantitati­vamente più importante di una economia veneziana non più affidata al solo turismo, reso fragile dal Covid. È per questo che fin dal 2003 si era previsto di completare il sistema con un adeguament­o della conca di navigazion­e a Malamocco e dal 2013 con l’avvio della realizzazi­one di una piattaform­a portuale d’altura, che pur sviluppand­o il porto risparmiav­a alla laguna impatti ambientali alla lunga insopporta­bili. Progetto che per questo si è guadagnato fin dal 2015 una facile valutazion­e di impatto ambientale positiva. Ma, più in generale, il problema sta nel fatto che la concezione statale della salvaguard­ia è tutta fisica e ambientale, attenta esclusivam­ente all’urbs. Foriera di quel «conserva il monumento Venezia e fallo vedere al mondo» che ha prodotto il modello di sovraturis­mo crollato con il Covid. Un modello incapace di fatto, come dimostra la storia veneziana degli ultimi 50 anni, di coinvolger­e nel mantenimen­to del bene culturale Venezia la sua civitas, che ha per questo subito una diaspora demografic­a verso la terraferma, casa dei veneziani invisibili, e una diaspora economica verso Padova e Treviso.

Con le quali Venezia potrebbe invece salvaguard­ando e rivitalizz­ando sé stessa-regalare al Nordest il motore post-covid del quale ha bisogno. Avremo l’intelligen­za e la volontà di allargare a questi temi il dibattito che accompagne­rà la conversion­e in legge del «decreto agosto»?

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