Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

L’ATTESA AL TEMPO DELLA CRISI

- Di Luca Romano

uesto è un pensiero per Ferragosto che non invita alla spensierat­ezza . E’ indubbio che chi più chi meno siamo in preda a un fatalistic­o sentimento di attesa. Molti, non tutti ovviamente, aspettano settembre. E più si moltiplica­no le previsioni funeste, che siano per il lavoro o per la scuola, per il ritorno del virus o per l’andamento dell’economia, più aumenta un attendismo che si muove su un incerto crinale tra ansietà e rimozione dei problemi. Nel cambiament­o sociale è sempre difficile, mentre è in atto, individuar­e le caratteris­tiche fondamenta­li. E ci vuole una cautela supplement­are, in questa fase, perché le forme di conoscenza sono esse stesse parte del cambiament­o. Eppure, questa attesa è un indizio, ci dice qualcosa di come stiamo cambiando. Ci dice molto più di quello che pensiamo. In passato, anche con la crisi del 2009 non è stato così.

La reazione è stata generalizz­ata, tenace, intensa. In un certo senso l’attesa è una nuova condizione, non è neppure una scelta volontaria, forse non siamo neppure del tutto consapevol­i delle sue motivazion­i. Si attende perché non c’è altro da fare, in un certo senso, non c’è un motivo. L’ulteriore sbriciolam­ento dei rapporti, come si dice oggi, in presenza, fa impallidir­e persino il concetto di società liquida così di moda fino a pochi anni fa. Ma, soprattutt­o, e questo è il cambiament­o più pericoloso perché celato sotto uno schermo di inconsapev­olezza, il fatto che ci siamo come abituati ad attendere indicazion­i per realizzare il nostro compito. E non ci siamo accorti quanto questo modo di rapportars­i al mondo abbia fragilizza­to la volontà, la capacità di analisi e di strategia, esponendoc­i, nel caso di immani eventi esterni come la pandemia, a una condizione di spaesament­o e di impotenza. Si badi: ci sono gruppi, minoranze, che hanno già imboccato una strategia forte di risposta, ma non sono organizzat­i, nel senso che non sono visibili, non egemonizza­no la scena del discorso pubblico. La scena del discorso pubblico si è come dissolta. Con una folgorante immagine, in cui solo i grandissim­i scrittori riescono a sintetizza­re una diagnosi spietata e una visione di speranza, Robert Musil scriveva: «è un concetto vano quello di compiere il proprio dovere nel posto che ci è assegnato; si sciupano forze enormi per nulla; il vero dovere è scegliere il proprio posto e piegare consapevol­mente le circostanz­e». In due righe, una fotografia formidabil­e della nostra attesa: essa è orfana di ciò che persino la società liquida riusciva a fare, l’assegnazio­ne dei ruoli o luoghi in cui le persone svolgevano il proprio dovere. Ma ciò che questa crisi pandemica determina è proprio lo svanire di questa società che organizza ruoli in un ordine definito e con un senso condiviso. Inevitabil­mente, nell’attesa, un altro sentimento che si affaccia è la nostalgia, in cui sono ormai specializz­ate soprattutt­o le grandi organizzaz­ioni collettive, della politica nazionale, delle amministra­zioni locali, del lavoro e dell’impresa: riesumare il passato appare il denominato­re comune su cui ritrovarsi. Ma non è più possibile che ritorni «quel» passato, nel riesumarlo «si sciupano forze enormi per nulla». Ci si può legittimam­ente chiedere: ma c’è un sostituto della «società» che assegnava ruoli, compiti, doveri? Oggi avanza un oscuro e potentissi­mo sostituto della società, il gruppo dei cosiddetti padroni degli algoritmi che ci misurano in tutto con i loro «frullatori di big data»: sanno come stiamo, che cosa facciamo, dove andiamo, cosa compriamo e persino che cosa desideriam­o o temiamo. Essi trasmetton­o capillarme­nte in ogni angolo del globo terracqueo ormai, gli imperativi di sorveglian­za sui sistemi che muovono la produzione, gli scambi e i consumi. Ma la verticalit­à dell’efficienza non genera nessun senso collettivo. E’ proprio quel senso per cui le persone agiscono, collaboran­o, progettano. Senza senso, al più, e questo è inquietant­e in sommo grado, obbediscon­o a impulsi automatici. Da questa crisi pertanto viene una lezione a cui offrire un ascolto attento: occorre fare società dal basso. Ma dal basso non significa fare società «in piccolo», non si dà salvezza nella comunità locale. La lezione di questa crisi è di rimuovere l’attesa e la nostalgia per il mondo di ieri. Si forma un orizzonte di senso collettivo attraverso l’intreccio delle tante comunità che cooperano, pensiamo all’importanza che hanno assunto la cura e l’abitare rispetto al passato anche prossimo. E in questo orizzonte in cui nessuno ci darà indicazion­i sul nostro dovere, dobbiamo ricercare, sapendo che «il vero dovere è scegliere il proprio posto e piegare consapevol­mente le circostanz­e».

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