Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
L’ATTESA AL TEMPO DELLA CRISI
uesto è un pensiero per Ferragosto che non invita alla spensieratezza . E’ indubbio che chi più chi meno siamo in preda a un fatalistico sentimento di attesa. Molti, non tutti ovviamente, aspettano settembre. E più si moltiplicano le previsioni funeste, che siano per il lavoro o per la scuola, per il ritorno del virus o per l’andamento dell’economia, più aumenta un attendismo che si muove su un incerto crinale tra ansietà e rimozione dei problemi. Nel cambiamento sociale è sempre difficile, mentre è in atto, individuare le caratteristiche fondamentali. E ci vuole una cautela supplementare, in questa fase, perché le forme di conoscenza sono esse stesse parte del cambiamento. Eppure, questa attesa è un indizio, ci dice qualcosa di come stiamo cambiando. Ci dice molto più di quello che pensiamo. In passato, anche con la crisi del 2009 non è stato così.
La reazione è stata generalizzata, tenace, intensa. In un certo senso l’attesa è una nuova condizione, non è neppure una scelta volontaria, forse non siamo neppure del tutto consapevoli delle sue motivazioni. Si attende perché non c’è altro da fare, in un certo senso, non c’è un motivo. L’ulteriore sbriciolamento dei rapporti, come si dice oggi, in presenza, fa impallidire persino il concetto di società liquida così di moda fino a pochi anni fa. Ma, soprattutto, e questo è il cambiamento più pericoloso perché celato sotto uno schermo di inconsapevolezza, il fatto che ci siamo come abituati ad attendere indicazioni per realizzare il nostro compito. E non ci siamo accorti quanto questo modo di rapportarsi al mondo abbia fragilizzato la volontà, la capacità di analisi e di strategia, esponendoci, nel caso di immani eventi esterni come la pandemia, a una condizione di spaesamento e di impotenza. Si badi: ci sono gruppi, minoranze, che hanno già imboccato una strategia forte di risposta, ma non sono organizzati, nel senso che non sono visibili, non egemonizzano la scena del discorso pubblico. La scena del discorso pubblico si è come dissolta. Con una folgorante immagine, in cui solo i grandissimi scrittori riescono a sintetizzare una diagnosi spietata e una visione di speranza, Robert Musil scriveva: «è un concetto vano quello di compiere il proprio dovere nel posto che ci è assegnato; si sciupano forze enormi per nulla; il vero dovere è scegliere il proprio posto e piegare consapevolmente le circostanze». In due righe, una fotografia formidabile della nostra attesa: essa è orfana di ciò che persino la società liquida riusciva a fare, l’assegnazione dei ruoli o luoghi in cui le persone svolgevano il proprio dovere. Ma ciò che questa crisi pandemica determina è proprio lo svanire di questa società che organizza ruoli in un ordine definito e con un senso condiviso. Inevitabilmente, nell’attesa, un altro sentimento che si affaccia è la nostalgia, in cui sono ormai specializzate soprattutto le grandi organizzazioni collettive, della politica nazionale, delle amministrazioni locali, del lavoro e dell’impresa: riesumare il passato appare il denominatore comune su cui ritrovarsi. Ma non è più possibile che ritorni «quel» passato, nel riesumarlo «si sciupano forze enormi per nulla». Ci si può legittimamente chiedere: ma c’è un sostituto della «società» che assegnava ruoli, compiti, doveri? Oggi avanza un oscuro e potentissimo sostituto della società, il gruppo dei cosiddetti padroni degli algoritmi che ci misurano in tutto con i loro «frullatori di big data»: sanno come stiamo, che cosa facciamo, dove andiamo, cosa compriamo e persino che cosa desideriamo o temiamo. Essi trasmettono capillarmente in ogni angolo del globo terracqueo ormai, gli imperativi di sorveglianza sui sistemi che muovono la produzione, gli scambi e i consumi. Ma la verticalità dell’efficienza non genera nessun senso collettivo. E’ proprio quel senso per cui le persone agiscono, collaborano, progettano. Senza senso, al più, e questo è inquietante in sommo grado, obbediscono a impulsi automatici. Da questa crisi pertanto viene una lezione a cui offrire un ascolto attento: occorre fare società dal basso. Ma dal basso non significa fare società «in piccolo», non si dà salvezza nella comunità locale. La lezione di questa crisi è di rimuovere l’attesa e la nostalgia per il mondo di ieri. Si forma un orizzonte di senso collettivo attraverso l’intreccio delle tante comunità che cooperano, pensiamo all’importanza che hanno assunto la cura e l’abitare rispetto al passato anche prossimo. E in questo orizzonte in cui nessuno ci darà indicazioni sul nostro dovere, dobbiamo ricercare, sapendo che «il vero dovere è scegliere il proprio posto e piegare consapevolmente le circostanze».