Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Guccini e quel piccolo mondo antico
Francesco Guccini tra ballata ed elegia affronta il cambiamento della civiltà contadina
Pàvana, tra Emilia e Toscana, operoso paese di solide radici contadine, ora è quasi disabitato. Torna a Pàvana, luogo della sua infanzia, Francesco Guccini, e racconta personaggi, mestieri, suoni, speranze, ricordi e cose del tempo perduto. Guccini è uno dei cinque finalisti del Premio Letterario Campiello con Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto (Giunti, 283 pagine, 19 euro).
« Tralummescuro era dialetto quando tutti parlavano dialetto e lo traduci con all’imbrunire, ma senti che non è la stessa cosa scrive Guccini - . Tralummescuro è la luce (la lumme) il chiarore che sta per diventare buio, la notte (lo scuro) e di notte, alora, era scuro davera. Adesso non passa più nessuno e anche il mulino è privo di voci; anche di là da l’acqua non ci va più nessuno, a legare le viti, a zapetare un campetto, a rubare ciliege, e la mulattiera è mezzo crollata. Tralummescuro è di un mondo, di una civiltà che non esistono più».
Malinconia e capacità di sorridere «delle umane cose» in questo libro, tra ballata e elegia, dove anche il linguaggio, con un intercalare di parole dialettali che cesellano e danno forma al ricordo, compone la fotografia di gesti, atmosfere e vite non illustri, eppure piene di significato. Lì dov’è ancora il cuore dell’ispirazione artistica dell’autore.
Come e quando è nata l’idea di questo libro?
«Nel 2020 sono tornato ad abitare a Pàvana e l’ho trovato un paese in via di disfacimento - racconta Francesco Guccini - . Ho voluto dedicargli una sorta di epitaffio, il ricordo della cultura e della vita di un tempo».
La giuria del Campiello da tempo chiedeva una letteratura non consolatoria, ma che spiazza. E una lingua raffinata, fuori da quella omologata degli editor. È il caso del suo libro?
«Il mio intento non era certo quello di una letteratura consolatoria, ma narrare la nostalgia verso un mondo scomparso. La lingua doveva seguire questo andamento, perciò ho usato anche nella scrittura il linguaggio parlato lì, allora. Sarebbe stato un tradimento verso le persone che lo abitavano e quella civiltà del passato usare una lingua italiana di clichè e frasi fatte».
Racconta di un mondo che non esiste più.
«Ma il mio non è rimpianto. Non è la descrizione dei bei tempi di una volta. Oggi in realtà stiamo molto meglio. Abbiamo tutti l’acqua corrente, una volta c’era il pozzo, abbiamo tutti l’automobile. Però era un mondo e una vita più semplice. Un mondo di una innocente crudeltà. Ad esempio si uccidevano e mangiavano gli animali con naturalezza: conigli, galline, maiali. Allora mi sembrava normale, oggi mi darebbe fastidio».
Chi dovrebbe leggere questo libro e perché?
«Tutti dovrebbero leggerlo. È un libro scritto con grande affetto e passione. Può esserci forse difficoltà nelle prime pagine, a entrare nella storia, ma poi ti cattura».
Riesce a esprimersi meglio attraverso la scrittura delle canzoni o dei libri?
«È tecnicamente diverso. Io ho sempre voluto fare lo scrittore (di libri), forse anche per questo nelle mie canzoni non ho mai scritto testi tradizionali. Sono un narratore, ma non tradizionale».
Ci sono scrittori a cui si ispira o che sono stati per lei un punto di riferimento?
«Ce ne sarebbero molti. Credo però che il mio modo di narrare sia nato soprattutto leggendo Luigi Meneghello e Carlo Emilio Gadda. Il linguaggio che utilizzo ricorda un po’ lo stile di Libera Nos a Malo di Meneghello e di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda».