Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Scienza, clima errori umani: cosa è cambiato
Su Verona una «supercella» temporalesca, eventi più frequenti, abbandono del territorio troppo sfruttato
Il maltempo estremo è la nuova normalità? E se è così cosa si può fare? Parlano gli esperti. Luigi D’alpaos, professore emerito del Dipartimento di idraulica dell’università di Padova. «Stiamo pagando le conseguenze dell’urbanizzazione scriteriata fatta nel passato nel Nordest- spiega l’esperto - che non ha tenuto conto di questo aspetto. E anche negli anni più recenti non c’è stata sufficiente attenzione».
«Quanti “eventi straordinari” del genere dovremo ancora vedere?». Una domanda retorica che è diventata un tormentone negli ultimi mesi tra i veronesi, in particolare tra chi abita a Est dell’adige. I residenti nell’area hanno contato, da maggio a questa parte, sei nubifragi intensi, l’ultimo dei quali, tra i fiumi di acqua e ghiaccio che hanno sommerso alcune vie e alberi centenari divelti, è cronaca recentissima. Ma lo stesso quesito si potrebbe allargare al Veneto tutto, regione che, in una manciata di anni ha contato l’acqua Granda di Venezia (2019), la tempesta Vaia (2018) il tornado della riviera del Brenta (nel 2015), quello di Vallà di Riese Pio X (2009), la tragedia del Molinetto della Croda a Refrontolo (2014), l’alluvione di Vicenza del 2011, e una serie lunghissima di eventi «minori», considerati tali solo in virtù di una conta dei danni più contenuta.
Il maltempo estremo è la nuova normalità? E se è così cosa si può fare, nel breve termine, per limitare i danni e non farsi sorprendere ogni volta?il nubifragio di sabato, che si è scatenato su Verona e sulle colline a nord della città, colpendo anche le provincie d Vicenza, Padova e Belluno, dal punto di vista meteorologico è stato causato da «normale» supercella temporalesca.
«Non c’è stato un vortice d’aria a terra, dunque non si può parlare di tromba d’aria — spiega il meteorologo dell’arpav Adriano Barbi — le precipitazioni non sono state straordinarie ma concentrate in pochi minuti. A Verona abbiamo contato 18 millimetri in cinque minuti, sul lago di Garda ne sono caduti 40 in mezzora. Dai radar abbiamo notato una linea temporalesca che, provando dal Bresciano e dal Trentino si è intensificata dopo il passaggio sul lago e ha avuto il culmine di intensità in città». Il dato veramente anomalo arriva dalle raffiche di vento, tutte «lineari», dovuti ai downburst, le correnti discendenti
della supercella.
La stazione Arpav del Parco dell’adige Nord ha segnato un massimo di 105 chilometri orari (per un confronto: una tempesta tropicale viene classificata come uragano quando supera i 120), altre stazioni tra gli 85 e i 90. Valori molto alti per la pianura padana, che spiega, assieme alla grandine, la «strage» dei 500 alberi.dunque, eccezionale o c’era da aspettarselo? «Tutto dipende dall’energia in gioco — è la risposta di Aldino Bondesan,
geomorfologo dell’università di Padova, esperto di ghiacciai alpini e «storico» del clima veneto — se ne abbiamo di più, ovvero più ci sono ondate di calore, maggiore è la probabilità di questi eventi. Le previsioni naturalmente sono difficili, ma disponiamo di buoni indicatori che supportano da tempo un rischio via via maggiore. Lo vediamo nella velocità con cui si ritirano i ghiacciai, ma anche dalla frequenza del ripresentarsi dell’acqua alta: fenomeni che
riusciamo a misurare meglio, e che sono buoni predittori dell’aumento statistico anche degli eventi avversi».e le risposte da dare? Bondesan insiste su «un adeguamento della rete idrografica minore: canali di scolo e fossi, spesso non oggetto di manutenzione o addirittura abbandonati». La questione era già stata sollevata, a Verona, dall’ordine degli ingegneri provinciale.
E la linea è sposata da Luigi D’alpaos, professore emerito del Dipartimento di idraulica
dell’università di Padova. «Il tema della rete minore è essenziale — afferma — stiamo pagando le conseguenze dell’urbanizzazione scriteriata fatta nel passato, che non ha tenuto conto di questo aspetto. E anche negli anni più recenti non c’è stata sufficiente attenzione». Da dove iniziare? «Innanzitutto non bisogna insistere ulteriormente sullo sfruttamento del territorio — prosegue d’alpaos — poi occorrono interventi zona per zona, a seconda delle criticità.
Prendiamo Verona: è vero, la zona più colpita fa parte del centro storico e, negli ultimi cento anni non è cambiata più di tanto. Ma, a monte, cos’è successo? Davvero non ci sono stati interventi che hanno modificato il territorio, che l’hanno reso più impermeabile? La verità è che, un po’ dappertutto, si sono dimenticate le opere idrauliche. Si sono fatte rotatorie e superstrade in abbondanza, ma per irreggimentare l’acqua gran poco».
Ultimo capitolo: i danni al patrimonio forestale. È stata la prima cosa che ha impressionati i vigili del fuoco mobilitati nel pomeriggio di domenica, alberi ovunque, in particolare sulle Torricelle, la zona collinare che chiude Verona a Nord. Tra le vittime «illustri» anche piante secolari, come il cipresso, descritto da Goethe nel suo «Viaggio in Italia» del Giardino Giusti.
Non è un caso se il sindaco Federico Sboarina, nella prima dichiarazione «a caldo» ha fatto un paragone con Vaia, la tempesta che, a fine ottobre 2018, ne ha sradicati a milioni tra Veneto e Trentino. «Si sta parlando di fenomeni naturalmente diversi come estensione — dice Marco Carrer, docente di Scienze Forestali all’università di Padova e che si è occupato direttamente dei danni post-vaia —. Gli effetti che ci sono stati però, potrebbero non essere così diversi. Va considerato, però, che gli alberi in città sono esemplari più delicati, esposti a interventi che possono danneggiarne le radici e ad agenti patogeni, il che li rende più vulnerabili già ad eventi meno severi. Purtroppo ci stiamo rendendo conti che i fenomeni che possono portare a effetti simili sulla flora possono ripetersi, a livello europeo, ogni dieci - quindici anni».