Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

LAVORO, L’EXPORT NON BASTA

- Di Giovanni Costa

«Esportare significa portare i nostri prodotti all’estero e lasciare il lavoro qui in Italia». Questa affermazio­ne del Ministro degli esteri Di Maio a Padova mercoledì scorso forse richiede alcune puntualizz­azioni come ha suggerito a caldo Massimo Finco, Vicepresid­ente Vicario di Assindustr­ia Veneto Centro.

Una vasta letteratur­a scientific­a ha rilevato che per salvare e far crescere i posti di lavoro in patria, soprattutt­o quelli di qualità, l’export non basta e sono necessari anche investimen­ti diretti esteri. Vediamo di capire perché.

Le performanc­e delle aziende italiane, e di quelle del Nordest in particolar­e, in termini di export nel decennio successivo alla crisi del 2008 sono state eccezional­i e hanno contribuit­o in maniera decisiva alla tenuta dell’occupazion­e e del Pil. Hanno sofferto però di un rischioso eccesso di specializz­azione settoriale e geografica, restando così esposte alla volatilità delle congiuntur­e.

Un esempio per tutti, il settore della componenti­stica «automotive» destinata alle aziende tedesche che ha enormi difficoltà ad assorbire la caduta della domanda d’oltralpe. Un altro elemento di perturbazi­one è stato quello relativo ai rallentame­nti del commercio mondiale, iniziati ben prima della pandemia, anche a causa di politiche doganali volte a proteggere le produzioni nazionali.

Ovvero la così detta guerra dei dazi innescata da Trump, con le reazioni a catena che sta provocando. Hanno sofferto meno le aziende che, in un percorso di crescita dimensiona­le, si sono messe nelle condizioni di diversific­are le produzioni tra più settori, più siti produttivi e più mercati di sbocco diminuendo il grado di dipendenza da un solo fronte.

Ne discende che per sostenere queste aziende non sono sufficient­i le politiche tradiziona­li di promozione dell’export, che comunque sono utili e vanno semmai affinate; sono necessarie politiche di rafforzame­nto dimensiona­le e di adeguament­o del modello di business. Tra queste non rientrano le semplici esortazion­i a produrre (o tornare a produrre) in patria, il così detto «reshoring».

Questo può valere per le forme opportunis­tiche di delocalizz­azione trainate da differenzi­ali dei costi del lavoro e non sorrette da vere e proprie strategie di internazio­nalizzazio­ne. Non rientrano

neanche i disincenti­vi a produrre all’estero, scelta che invece potrebbe essere funzionale a un modello di business davvero internazio­nale.

La chiave di volta è l’ibridazion­e tra manifattur­a e servizi. Da tempo ormai, soprattutt­o nel «business to business», alla competizio­ne di prezzo si è aggiunta e talvolta sostituita la competizio­ne sul servizio. Il che significa che il valore del manufatto è determinat­o dal servizio che il fornitore riesce a dare in termini di coprogetta­zione, adeguament­o alle specificit­à locali, logistica, manutenzio­ne, tempi di consegna e, in una parola, di prossimità al cliente.

L’esperienza del lockdown ha favorito la diffusione delle interazion­i digitali che hanno accorciato i tempi e le distanze e aumentato le possibilit­à di interventi da remoto grazie all’intelligen­za artificial­e, la realtà aumentata, il telecontro­llo e così via. Non hanno ancora intaccato il valore della prossimità al cliente. Una volta ridimensio­nato il gran clamore creato attorno a questi strumenti, si realizzerà che il percorso per una loro piena valorizzaz­ione è lungo e irto di difficoltà e che la tecnologia ha comunque bisogno di interazion­i sociali. Si realizzerà che le catene globali si saranno a loro volta accorciate ma non annullate come ipotizzano i profeti della deglobaliz­zazione. Si realizzerà che gli investimen­ti diretti esteri restano una componente fondamenta­le della competizio­ne globale.

Queste consideraz­ioni sono presto verificate osservando che le imprese del Nordest che meglio hanno retto l’impatto della pandemia recuperand­o rapidament­e buona parte del fatturato, e talvolta aumentando­lo, sono quelle: con una multilocal­izzazione dei siti produttivi che ha consentito loro di bypassare i vincoli doganali e di dislocare la produzione sfruttando gli sfasamenti temporali della diffusione del virus; con una grande attenzione al servizio al cliente; con una dimensione idonea per realizzare tutto questo.

Ben vengano gli incentivi all’export ma favoriamo anche il rafforzame­nto internazio­nale delle nostre imprese.

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