Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Gassmann al Lido «Non odiare», film contro il razzismo
La mostra del Cinema L’attore protagonista di «Non odiare», film ambientato a Trieste
Èpiù facile odiare o non odiare? Alessandro Gassmann non ha dubbi: «È più difficile non odiare nella società di oggi. L’odio è stato legalizzato dalla rete, poi si sta trasferendo negli Stati Uniti, ma anche nel nostro Paese in maniera sempre più esplicita e invadente». Al Lido per presentare Non odiare, opera prima di Mauro Mancini in concorso alla Settimana della Critica, Gassmann nel film è Simone Segre, un medico ebreo in una Trieste vitrea, che scava un abisso dentro di sé rinunciando a salvare la vita a un uomo vittima di un incidente, perché sul petto ha tatuata una svastica. Lo spunto per film è un fatto di cronaca accaduto in Germania, con un medico che si era rifiutato di curare un paziente che aveva l’aquila nazista sul petto. Dal 10 settembre sarà nelle sale.
Gassmann, è ancora così importante parlare di razzismo al cinema?
«Certo che lo è. E mi fa abbastanza impressione essere qui a Venezia a presentare un film sul razzismo e l’intolleranza a 82 anni esatti dalle leggi razziali, se penso alla devastazione che hanno portato e alla mostruosità della loro portata».
Come in altri film della Mostra, anche qui c’è il tema del rapporto padre-figlio.
«Mio padre nel film è un ebreo deportato nei campi di concentramento. Dentro ci ho messo un po’ della mia storia: mio padre era ebreo da parte di madre; mia nonna dovette cambiare il suo cognome da Ambron a Ambrosi; mio padre si salvò e salvò la famiglia essenzialmente perché era nazionale di pallacanestro e sappiamo quanto il regime apprezzasse la prestanza fisica della razza italica, ma mio padre si è portato dietro per tutta la vita il terrore di quello che visse in quel periodo: non ne parlava e quando fu costretto a mettersi la kippah al matrimonio di mia sorella Vittoria, fu come levare finalmente un velo di paura di dare troppo nell’occhio, perché in automatico gli entrava la pau
ra di essere scoperto come diverso, pericoloso, da eliminare».
Trieste non è stata scelta a caso.
«È una città che ha vissuto l’odio sulla sua pelle, sia da una parte che dall’altra. Credo fosse la città ideale per questo film. È una città che aveva i colori e i silenzi, le ombre che Mauro racconta nella sua storia. Abbiamo lavorato benissimo con la film commission del Friuli-venezia Giulia, era una troupe mista italo-polacca. Trieste ci ha regalato veramente l’atmosfera giusta per raccontare la nostra storia».
Nel film anche il figlio della vittima ha il tatuaggio di una svastica. I giovani si possono salvare dall’odio?
«Si potranno salvare se reagiranno in maniera molto più evidente di quanto non stiano facendo adesso. Penso a Greta Thunberg: la sua reazione ha portato a grandi movimenti. Sicuramente non è sufficiente. E lo dice uno che si occupa di cambiamenti climatici in maniera quasi maniacale. Quello sarà il cambiamento da fare. I giovani devono capire che possono essere meglio di come vengono descritti e sono molto più forti loro».
Lei quell’uomo l’avrebbe salvato?
«Due cugine di mia nonna furono deportate e uccise nei cambi di concentramento. Dentro di me ho una forma di odio nei confronti del nazismo e del razzismo. Ma probabilmente l’avrei salvato. Non odiare sarebbe un bell’undicesimo comandamento».