Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
PANDEMIA ED ECOLOGISMO PIÙ RICERCA PER PREVENIRE
Da qualunque punto di vista la si guardi, la pandemia in atto rappresenta una prova durissima da superare, un evento drammatico a livello globale.
Lo stupore con cui il mondo ha reagito all’invasione da parte di questo virus...
Da qualunque punto di vista la si guardi, la pandemia in atto rappresenta una prova durissima da superare, un evento drammatico a livello globale. Lo stupore con cui il mondo ha reagito all’invasione da parte di questo virus - che fatichiamo persino a chiamare «essere vivente» – ha sollevato questioni sulla fragilità della società umana come oggi organizzata. E, purtroppo, come spesso accade, invece di riflettere sui fatti importanti che questa pandemia ci sta sventolando sotto il naso, qualcuno continua a lanciare profezie (o anatemi) del giorno dopo. Un argomento utilizzato in modo fastidioso e fuori contesto scientifico è quello che vede la pandemia come conseguenza dello sfruttamento della Natura da parte dell’uomo, quasi come una punizione per le sue malefatte recenti. La pandemia viene messa sullo sfondo dell’alterazione ambientale che stiamo perpetrando sempre di più, in modo sempre più pericoloso e irreversibile, nell’era geologica dell’antropocene, quella dell’impronta massiva – e distruttiva - dell’uomo sulla biosfera.
Lungi dal sostenere che le questioni ambientali non siano il vero, cruciale problema del nostro tempo, la storia dell’umanità ci dice che questo argomento non regge.
I nostri guai col coronavirus sono cominciati con un evento di spillover, come dicono gli scienziati, dal pipistrello all’uomo, con un possibile passaggio intermedio nel pangolino. Nessuna alterazione climatica o nessun disastro ambientale può aver favorito questo evento, come non è difficile immaginare.
Tali cose accadono, da migliaia d’anni, perché mangiamo animali selvatici, e perché da un certo punto in poi, in assenza di sistemi efficienti di preservazione delle carni, questi animali abbiamo cominciato a portarli vivi in vendita nei mercati. Ma anche senza chiamare in causa discutibili abitudini culinarie, il problema degli spillover, e delle epidemie che ne conseguono, nasce circa dodicimila anni fa, nel periodo cruciale della storia umana che chiamiamo «transizione neolitica». Nasce in una pianura alluvionale circondata da due fiumi, il Tigri e l’eufrate, in quella che comunemente, memori del suo passato, chiamiamo la mezzaluna fertile. Nasce, il problema, come sottoprodotto di due notevoli invenzioni che i cacciatori-raccoglitori paleolitici della zona realizzano: la domesticazione delle piante, ovvero l’agricoltura, e quella degli animali, ovvero l’allevamento. Così notevoli, le invenzioni, da essere il fulcro per la nascita di ciò che chiamiamo oggi civiltà umana. Queste due pratiche comportarono il concentrarsi dei cacciatori-raccoglitori, prima organizzati in bande, in aggregati da centinaia e poi migliaia di individui, che diventarono stanziali, e che daranno vita, al culmine di questo processo, al primo regno della storia, quello dei Sumeri. Ed è allora, alla transizione neolitica, che appare anche il fenomeno, prima sconosciuto, delle epidemie. Aggregazioni di uomini e di animali, prima a vita libera, innescano spillover a catena: batteri e virus, selezionati per milioni di anni a infettare gli animali, trovano sul loro percorso un nuovo, curioso mammifero bipede, che imparano rapidamente a conquistare.
Capiamo il big bang dell’era delle epidemie in Mesopotamia da dati indiretti ma inequivocabili. Per esempio la natura «a singhiozzo» della sedentarizzazione nella mezzaluna fertile: siti occupati, nascita di architetture domestiche, e subitaneo abbandono, non giustificato da eventi ambientali: tutto è lo stesso, ma gli uomini spariscono misteriosamente nello spazio di anni, o addirittura mesi. Il quadro che ci si para davanti è una successione continua di micidiali epidemie, che hanno falcidiato le comunità agricole fra il Tigri e l’eufrate ree di concentrarsi in città e di domare mammiferi selvaggi.
E nella storia a venire, virus e batteri hanno imperversato ciclicamente, lasciando dietro di sé tracce molecolari che oggi possiamo rintracciare, per esempio, nelle mummie egizie. In tempi più recenti, nei tempi della storia raccontata, Tucidide ci parla della «peste di Atene» che eliminò gran parte della popolazione e che non sappiamo ancora se fosse tifo o qualcosa di simile a Ebola. E, nell’impero romano, la «peste di Galeno», così chiamata in onore del medico che la descrisse, era anch’essa, come l’attuale pandemia, probabilmente di natura virale.
Tutta la storia umana che segue è una successione ininterrotta di fenomeni epidemici o pandemici, finché molto tardi, nel diciannovesimo secolo, Robert Koch, Louis Pasteur, Edward Jenner ed altri scienziati meno noti compresero il fenomeno e aprirono la strada alla vaccinazione.
Diventa allora chiaro, a questo punto, che la pandemia da coronavirus è parte di un processo cominciato – e mai interrotto – con la nascita della civiltà umana, e che l’invocare le altrimenti sacrosante istanze ecologistiche, in questa precisa fattispecie, dovrebbe corrispondere alla decisione di ritornare allo stato di cacciatori-raccoglitori, magari dopo aver dato una grande sforbiciata al numero di individui che ora popolano il mondo.
Meglio sarebbe, dunque, richiamare l’attenzione del mondo su alcuni aspetti critici del nostro rapporto con la natura che la pandemia ha evidenziato.
La prima è che il virus, da fantastico acceleratore di processi qual è, ci ha mostrato, seppur drammaticamente, che un altro modo di vivere è possibile. Quel modo di vivere di cui gli ecologisti seri parlano da anni, basato sulla riduzione degli spostamenti allo stretto necessario grazie a strumenti come smart working, teleconferenze, pianificazione dei bisogni. Quel modo di vivere basato sulla riduzione dei consumi, su uno stile di vita più consono allo sbilanciamento causato dal continuo aumentare della popolazione e l’esaurimento delle risorse.
La seconda è che ascoltare la voce della scienza, e aiutarla a crescere forte, conviene a tutti. Così come gli scienziati si aspettavano uno spillover capace di causare una pandemia globale e non sono stati coinvolti nelle decisioni politiche necessarie a essere preparati per affrontarla, allo stesso modo non vengono ascoltati quando mostrano come il cambiamento climatico sia la più grave emergenza che dobbiamo fronteggiare. Una lezione cruciale che ci viene impartita da questo virus è che non possiamo aspettare che l’emergenza climatica ci travolga, per poi ricordarci della scienza e chiederle di trovare una soluzione immediata. Contro i danni causati dalla distruzione della biosfera non basterà un vaccino, seppur innovativo e rapidissimo.
Ci conviene, dunque, piuttosto che ricominciare a setacciare insetti per i prati o contare assurdamente su catastrofi demografiche, incoraggiare, finanziare, stimolare, sostenere in ogni modo la ricerca scientifica. Ci conviene iniziare a pensare e a governare con lungimiranza, ascoltando, prima di qualunque altra, la voce di chi, dati alla mano, ci chiede di agire adesso prima che sia troppo tardi.