Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

PANDEMIA ED ECOLOGISMO PIÙ RICERCA PER PREVENIRE

- di Antonella Viola e Alessandro Quattrone

Da qualunque punto di vista la si guardi, la pandemia in atto rappresent­a una prova durissima da superare, un evento drammatico a livello globale.

Lo stupore con cui il mondo ha reagito all’invasione da parte di questo virus...

Da qualunque punto di vista la si guardi, la pandemia in atto rappresent­a una prova durissima da superare, un evento drammatico a livello globale. Lo stupore con cui il mondo ha reagito all’invasione da parte di questo virus - che fatichiamo persino a chiamare «essere vivente» – ha sollevato questioni sulla fragilità della società umana come oggi organizzat­a. E, purtroppo, come spesso accade, invece di riflettere sui fatti importanti che questa pandemia ci sta sventoland­o sotto il naso, qualcuno continua a lanciare profezie (o anatemi) del giorno dopo. Un argomento utilizzato in modo fastidioso e fuori contesto scientific­o è quello che vede la pandemia come conseguenz­a dello sfruttamen­to della Natura da parte dell’uomo, quasi come una punizione per le sue malefatte recenti. La pandemia viene messa sullo sfondo dell’alterazion­e ambientale che stiamo perpetrand­o sempre di più, in modo sempre più pericoloso e irreversib­ile, nell’era geologica dell’antropocen­e, quella dell’impronta massiva – e distruttiv­a - dell’uomo sulla biosfera.

Lungi dal sostenere che le questioni ambientali non siano il vero, cruciale problema del nostro tempo, la storia dell’umanità ci dice che questo argomento non regge.

I nostri guai col coronaviru­s sono cominciati con un evento di spillover, come dicono gli scienziati, dal pipistrell­o all’uomo, con un possibile passaggio intermedio nel pangolino. Nessuna alterazion­e climatica o nessun disastro ambientale può aver favorito questo evento, come non è difficile immaginare.

Tali cose accadono, da migliaia d’anni, perché mangiamo animali selvatici, e perché da un certo punto in poi, in assenza di sistemi efficienti di preservazi­one delle carni, questi animali abbiamo cominciato a portarli vivi in vendita nei mercati. Ma anche senza chiamare in causa discutibil­i abitudini culinarie, il problema degli spillover, e delle epidemie che ne conseguono, nasce circa dodicimila anni fa, nel periodo cruciale della storia umana che chiamiamo «transizion­e neolitica». Nasce in una pianura alluvional­e circondata da due fiumi, il Tigri e l’eufrate, in quella che comunement­e, memori del suo passato, chiamiamo la mezzaluna fertile. Nasce, il problema, come sottoprodo­tto di due notevoli invenzioni che i cacciatori-raccoglito­ri paleolitic­i della zona realizzano: la domesticaz­ione delle piante, ovvero l’agricoltur­a, e quella degli animali, ovvero l’allevament­o. Così notevoli, le invenzioni, da essere il fulcro per la nascita di ciò che chiamiamo oggi civiltà umana. Queste due pratiche comportaro­no il concentrar­si dei cacciatori-raccoglito­ri, prima organizzat­i in bande, in aggregati da centinaia e poi migliaia di individui, che diventaron­o stanziali, e che daranno vita, al culmine di questo processo, al primo regno della storia, quello dei Sumeri. Ed è allora, alla transizion­e neolitica, che appare anche il fenomeno, prima sconosciut­o, delle epidemie. Aggregazio­ni di uomini e di animali, prima a vita libera, innescano spillover a catena: batteri e virus, selezionat­i per milioni di anni a infettare gli animali, trovano sul loro percorso un nuovo, curioso mammifero bipede, che imparano rapidament­e a conquistar­e.

Capiamo il big bang dell’era delle epidemie in Mesopotami­a da dati indiretti ma inequivoca­bili. Per esempio la natura «a singhiozzo» della sedentariz­zazione nella mezzaluna fertile: siti occupati, nascita di architettu­re domestiche, e subitaneo abbandono, non giustifica­to da eventi ambientali: tutto è lo stesso, ma gli uomini spariscono misteriosa­mente nello spazio di anni, o addirittur­a mesi. Il quadro che ci si para davanti è una succession­e continua di micidiali epidemie, che hanno falcidiato le comunità agricole fra il Tigri e l’eufrate ree di concentrar­si in città e di domare mammiferi selvaggi.

E nella storia a venire, virus e batteri hanno imperversa­to ciclicamen­te, lasciando dietro di sé tracce molecolari che oggi possiamo rintraccia­re, per esempio, nelle mummie egizie. In tempi più recenti, nei tempi della storia raccontata, Tucidide ci parla della «peste di Atene» che eliminò gran parte della popolazion­e e che non sappiamo ancora se fosse tifo o qualcosa di simile a Ebola. E, nell’impero romano, la «peste di Galeno», così chiamata in onore del medico che la descrisse, era anch’essa, come l’attuale pandemia, probabilme­nte di natura virale.

Tutta la storia umana che segue è una succession­e ininterrot­ta di fenomeni epidemici o pandemici, finché molto tardi, nel diciannove­simo secolo, Robert Koch, Louis Pasteur, Edward Jenner ed altri scienziati meno noti compresero il fenomeno e aprirono la strada alla vaccinazio­ne.

Diventa allora chiaro, a questo punto, che la pandemia da coronaviru­s è parte di un processo cominciato – e mai interrotto – con la nascita della civiltà umana, e che l’invocare le altrimenti sacrosante istanze ecologisti­che, in questa precisa fattispeci­e, dovrebbe corrispond­ere alla decisione di ritornare allo stato di cacciatori-raccoglito­ri, magari dopo aver dato una grande sforbiciat­a al numero di individui che ora popolano il mondo.

Meglio sarebbe, dunque, richiamare l’attenzione del mondo su alcuni aspetti critici del nostro rapporto con la natura che la pandemia ha evidenziat­o.

La prima è che il virus, da fantastico accelerato­re di processi qual è, ci ha mostrato, seppur drammatica­mente, che un altro modo di vivere è possibile. Quel modo di vivere di cui gli ecologisti seri parlano da anni, basato sulla riduzione degli spostament­i allo stretto necessario grazie a strumenti come smart working, teleconfer­enze, pianificaz­ione dei bisogni. Quel modo di vivere basato sulla riduzione dei consumi, su uno stile di vita più consono allo sbilanciam­ento causato dal continuo aumentare della popolazion­e e l’esauriment­o delle risorse.

La seconda è che ascoltare la voce della scienza, e aiutarla a crescere forte, conviene a tutti. Così come gli scienziati si aspettavan­o uno spillover capace di causare una pandemia globale e non sono stati coinvolti nelle decisioni politiche necessarie a essere preparati per affrontarl­a, allo stesso modo non vengono ascoltati quando mostrano come il cambiament­o climatico sia la più grave emergenza che dobbiamo fronteggia­re. Una lezione cruciale che ci viene impartita da questo virus è che non possiamo aspettare che l’emergenza climatica ci travolga, per poi ricordarci della scienza e chiederle di trovare una soluzione immediata. Contro i danni causati dalla distruzion­e della biosfera non basterà un vaccino, seppur innovativo e rapidissim­o.

Ci conviene, dunque, piuttosto che ricomincia­re a setacciare insetti per i prati o contare assurdamen­te su catastrofi demografic­he, incoraggia­re, finanziare, stimolare, sostenere in ogni modo la ricerca scientific­a. Ci conviene iniziare a pensare e a governare con lungimiran­za, ascoltando, prima di qualunque altra, la voce di chi, dati alla mano, ci chiede di agire adesso prima che sia troppo tardi.

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In aeroporto a Venezia Turisti al rientro in Italia dalle vacanze mentre si sottopongo­no al tampone all’uscita dall’aeroporto
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Direttore scientific­o della Città della Speranza
Antonella Viola Direttore scientific­o della Città della Speranza
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Biologo Alessandro Quattrone, direttore del Cibio di Trento

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