Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

GIOVANI, LA SVOLTA CHE SERVE

- Di Gigi Copiello

«Giovani e donne, vittime della crisi»: ero giovane anch’io e già allora si diceva così. «Mancano gli specializz­ati»: Excelsior lo conferma da almeno trent’anni. «Troppo istruiti per il lavoro che fanno»: Cgia di Mestre lo ripete anno dopo anno. Tre notizie uscite negli ultimi giorni e non c’è nulla di nuovo sotto il sole, ma le stesse cose ritornano. Gli specializz­ati non si trovano né quando c’è lavoro (e ci può stare) ma neppure quando il Veneto, l’italia e il mondo intero sono precipitat­i in una crisi senza precedenti.

I giovani e le donne: quelli che hanno studiato spesso più dei maschi adulti. Eppure, giovani e donne occupano i posti di lavoro più precari. E più poveri, anche di competenze.

Così vanno le cose nel mercato del lavoro del Veneto, non diversamen­te da quello italiano. Così van le cose, e si perde il conto a contare le innumerevo­li leggi e contratti, regionali e nazionali, che avevano «risolto» il problema. O così dicevano ministri e assessori, confindust­riali e confederal­i. E invece no. Con tutta evidenza no. E allora, che si fa? «Una rivoluzion­e», così scrive agli associati il presidente di Confindust­ria Bonomi. Testuale. E va bene, facciamo la rivoluzion­e. Come? Il presidente indica due vie. Ridurre il costo del lavoro, a carico dello Stato, come fatto per le aziende del Sud.

Recuperare qualche flessibili­tà, come si è fatto con il lavoro a distanza.

Ridurre il costo, aumentare le flessibili­tà: non c’è nulla da dire, tranne una cosa: sono misure vecchie come il mondo (del lavoro). Usate più e più volte, in dosi omeopatich­e oppure con cure da cavallo. Ma siamo sempre lì. Nulla dice, il presidente, su un tema che nuovo non è, ma almeno è più recente: da un decennio i giovani e le giovani, scolarizza­te e specializz­ate, lasciano i nostri paesi e il Paese. E mica ritornano. Si badi: il problema riguarda innanzitut­to e per lo più imprese e privati, perché per i posti pubblici c’è sempre la fila. Se rivoluzion­e s’ha da fare, si faccia allora per tenere o far rientrare queste decine, ormai centinaia di migliaia di nostri ragazzi che portano le loro competenze in giro per il mondo. Che se ne vanno per tante e diverse ragioni, ma soprattutt­o per una, ripetuta come un mantra: «merito». Fuori dall’italia è riconosciu­to quello che in Italia è negato. Magari fai il cameriere, ma almeno sai perché. In Italia, neppure si risponde ai curriculum e quando entri in azienda, non c’è merito che tenga. Esagero? Loro dicono così. E, d’altra parte, imprendito­ri e sindacalis­ti sanno che su orari, assenze e disciplina leggi e contratti obbligano e c’è poco da discutere. Su profession­alità, competenze e merito, «ognun per sé e dio per tutti». È strano che il mondo delle imprese sia così poco attento a questo tema, il tema del merito.

Un tema «liberal». Eppure, è così. Perché ciascuna impresa lo vuol declinare a proprio uso e consumo e per la stragrande maggioranz­a, alla fin della fiera, è sempre fedeltà ed esperienza. Roba da maschi adulti, più che da giovani e donne. E tutto si tiene. Ivi compreso che gli specializz­ati non si trovano, mai, più. Cambierà? A furia di ripetere «giovani e donne» son diventato vecchio. Ma, come si dice, la speranza è ultima a morire. E se persino FCA, quella che fa auto, ha messo on line, in modo trasparent­e e chiaro per tutti, cos’è il merito, come si costruisce, come si accerta, questa è proprio una rivoluzion­e. Quella da fare, nel nostro mercato del lavoro.

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