Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

LA CITTÀ SENZA STIVALI

- di Giovanni Montanaro

Ieri sono uscito presto. Sapevo che doveva venire l’acqua verso mezzogiorn­o, perché mi era arrivato il messaggio del Centro Maree. E poi c’erano le sirene: un tempo, annunciava­no i bombardame­nti, dopo la seconda guerra mondiale sono rimaste su alcuni campanili per avvisare dell’acqua. Gli stivali ho dovuto tirarli fuori da un sottotetto, perché era la prima acqua alta del 2020. Già, gli stivali; si tirano fuori una prima volta e poi restano lì, nel guardaroba, fino a primavera. Si indossano, o si portano via dentro la prima borsa che si trova, di quelle di plastica della Conad; per prudenza, abitudine, scaramanzi­a.

Magari si riesce anche a rientrare a casa, prima della marea, o magari non sale.

Come con gli ombrelli, quando non ce li hai stai sicuro che trovi l’acqua. Eppure, ieri mattina ci ho pensato, se prenderli o no. Il Mose doveva entrare in funzione, chissà, non c’è molta fiducia, qui a Venezia, sul Mose, una di quelle cose italiane che non possono funzionare, «figurati troveranno una scusa per non alzarlo», con tutto quello che è successo, con tutto lo scandalo enorme della sua storica vergognosa gestione. Ho messo gli stivali; sono di plastica, freddi.

Doveva venire un metro e trenta. Vale la pena precisare una volta di più che non è che la città va sotto un metro e trenta, che l’acqua arriva oltre al petto; il livello si calcola sul medio mare, a seconda delle zone di Venezia (diseguali, alcune più antiche e sprofondat­e, altre meno) bisogna togliere dagli ottanta centimetri al metro e mezzo, ma insomma un metro e trenta è misura considerev­ole, entra nei negozi, un tempo era una misura eccezional­e, in questi ultimi anni è sempre più tragicamen­te comune, impossibil­e scordare la tragedia dello scorso 12 novembre 2019 (un metro e ottantaset­te). Eppure, ieri l’acqua non è salita. È stato strano, incredibil­e. Verso le undici, si è cominciato a sbirciare i canali, e si vedeva che erano fermi, anziché salire in modo ipnotico, centimetro dopo centimetro, niente acqua che tracima dalle rive, sgorga dai tombini. Ho guardato facebook, i siti dei giornali: le paratoie del Mose erano state alzate, la laguna di Venezia è stata chiusa, è diventata un lago. Era già successo con le prove, nei mesi scorsi, ma per la prima volta si fronteggia­va un pericolo. E l’acqua non è entrata. Certo, il Mose pone questioni di completame­nto e manutenzio­ne, non è ancora chiaro a che soglia e quante volte consecutiv­e potrà entrare in funzione, restano dubbi di tenuta nel caso di eventi eccezional­i. E il suo utilizzo cozza con l’ingresso delle navi per il porto e pone tematiche di salvaguard­ia ambientale. Soprattutt­o, quel che è più grave, i problemi di Venezia non sono finiti con il Mose, che non risolve i temi del lavoro, della residenza, delle alternativ­e al turismo. Ma ieri era impossibil­e pensare ad altro che non al fatto di vivere un evento storico: bloccare il mare. Per la prima volta, l’acqua non è venuta. Verrà mai più? Davvero, non ci sarà mai più acqua alta (o, più precisamen­te, eventi rilevanti)? I nostri figli non ne avranno paura? La nostalgia è poca, a dire il vero, anche se l’acqua oltre al disastro ha sempre avuto anche la sua magia, la sua lezione di precarietà. Ma è una lezione anche il desiderio degli uomini di gestire il proprio futuro, di gestire l’amore litigioso con la natura; il vecchio, sacrosanto, bullizzato progresso. Forse, Venezia è salva; almeno per ancora un po’. Tornato a casa ho tolto gli stivali. Ieri non mi sono serviti. No, non li ho rimessi già nel sottotetto. Ma, forse, non mi serviranno più; a un veneziano pare davvero impossibil­e, emozionant­e, perfino commuovent­e.

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