Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
LO SCATTO CHE SERVE AL PD
C i sono voluti ben cinque mesi per arrivare ad un primo risultato, peraltro ancora lontano dal potersi considerare risolutivo. Cinque lunghi mesi trascorsi in surplace, come accade nelle gare di ciclismo su pista, quando nessuno dei concorrenti vuole fare la prima mossa, e aspetta immobile sulla bici in equilibrio che a muoversi siano gli altri. Così è accaduto nel Pd veneto dopo la disfatta elettorale delle amministrative della scorsa primavera, quando si riuscì nella non facile impresa di battere ogni record: la più bassa percentuale della storia, il più netto divario negativo rispetto alla formazione vincitrice, la perdita più rilevante di voti espressi in paragone col precedente turno delle europee. Già il rimandare di tante settimane la necessaria e doverosa resa dei conti, con l’aggravante di differire ulteriormente la soluzione definitiva - affidata ad un Congresso regionale straordinario in programma nel prossimo febbraio – già questo traccheggiare è di per sé un sintomo tutt’altro che incoraggiante. Come se il lasciar trascorrere quasi un anno fra le elezioni e il dibattito congressuale debba servire a stemperare le polemiche, a trovare compromessi, o anche più semplicemente a far discutere in un clima meno arroventato. Già questo primo, e tardivo, appuntamento, svoltosi sabato scorso all’abbazia di Praglia, lascia intravedere quale sarà la linea che finirà per prevalere.
continua a pagina
Quella tracciata dai tre segretari che si sono avvicendati negli ultimi anni («abbiamo perso, però almeno abbiamo dato prova di voler vincere», secondo la versione del segretario uscente De Menech), o peggio ancora quella delineata dal ministro Boschi, il cui intervento ha confermato una volta di più – senza che se ne sentisse davvero il bisogno – il fatto che i dirigenti nazionali del Partito continuano a dimostrare di non capire nulla del Veneto. A meno che non si ritenga che la via giusta per ribaltare un rapporto di forze abissalmente sfavorevole possa consistere nel raccontare la favola di una «valigia piena di sogni», con la quale attraversare «una terra ricca di opportunità», quale sarebbe la nostra regione, come ha detto testualmente la Boschi. Di ben altro – lo si va ripetendo inutilmente da anni su queste colonne – avrebbe bisogno un partito come il Pd veneto per tentare di uscire da una subalternità storica, anche solo per invertire una tendenza che ha assunto caratteri perfino inquietanti. Non di sedute di auto coscien za collettiva all’insegna del «siamo tutti colpevoli», o dei pannicelli caldi proposti da un simpatico, quanto sprovveduto, ministro in gita. Ma di un confronto interno autentico, senza diplomazie, senza giochetti, senza mediazioni al ribasso. Di una presenza sul territorio non confinata alle poche settimane della campagna elettorale, ma coestensiva alla vita delle comunità. Di una internità ai processi di trasformazione in corso nella regione, e di una capacità di dialogare costruttivamente con i soggetti di questi processi. Di una sensibilità in senso lato «culturale» a cogliere i tanti, e spesso contraddittori, messaggi provenienti da una società dinamica e mutevole, quale è quella veneta, senza andare sempre penosamente a rimorchio delle iniziative assunte a livello centrale, senza scimmiottare il renzismo nelle sue espressioni deteriori, trascurando insieme quel tanto di buono e di nuovo che pure vi è nella leadership renziana. Riuscirà in questa impresa un partito ormai ridotto ai minimi termini, capace fra l’altro di perdere due comuni fondamentali, quali Padova e Venezia, nel giro di pochi mesi? Ad essere schietti, i segnali che vengono, anche dall’assise recente, non sono rassicuranti. A meno che non valga il verso del poeta: «là dove c’è il pericolo, lì cresce anche ciò che salva».