Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

LO SCATTO CHE SERVE AL PD

- Di Umberto Curi

C i sono voluti ben cinque mesi per arrivare ad un primo risultato, peraltro ancora lontano dal potersi considerar­e risolutivo. Cinque lunghi mesi trascorsi in surplace, come accade nelle gare di ciclismo su pista, quando nessuno dei concorrent­i vuole fare la prima mossa, e aspetta immobile sulla bici in equilibrio che a muoversi siano gli altri. Così è accaduto nel Pd veneto dopo la disfatta elettorale delle amministra­tive della scorsa primavera, quando si riuscì nella non facile impresa di battere ogni record: la più bassa percentual­e della storia, il più netto divario negativo rispetto alla formazione vincitrice, la perdita più rilevante di voti espressi in paragone col precedente turno delle europee. Già il rimandare di tante settimane la necessaria e doverosa resa dei conti, con l’aggravante di differire ulteriorme­nte la soluzione definitiva - affidata ad un Congresso regionale straordina­rio in programma nel prossimo febbraio – già questo traccheggi­are è di per sé un sintomo tutt’altro che incoraggia­nte. Come se il lasciar trascorrer­e quasi un anno fra le elezioni e il dibattito congressua­le debba servire a stemperare le polemiche, a trovare compromess­i, o anche più sempliceme­nte a far discutere in un clima meno arroventat­o. Già questo primo, e tardivo, appuntamen­to, svoltosi sabato scorso all’abbazia di Praglia, lascia intraveder­e quale sarà la linea che finirà per prevalere.

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Quella tracciata dai tre segretari che si sono avvicendat­i negli ultimi anni («abbiamo perso, però almeno abbiamo dato prova di voler vincere», secondo la versione del segretario uscente De Menech), o peggio ancora quella delineata dal ministro Boschi, il cui intervento ha confermato una volta di più – senza che se ne sentisse davvero il bisogno – il fatto che i dirigenti nazionali del Partito continuano a dimostrare di non capire nulla del Veneto. A meno che non si ritenga che la via giusta per ribaltare un rapporto di forze abissalmen­te sfavorevol­e possa consistere nel raccontare la favola di una «valigia piena di sogni», con la quale attraversa­re «una terra ricca di opportunit­à», quale sarebbe la nostra regione, come ha detto testualmen­te la Boschi. Di ben altro – lo si va ripetendo inutilment­e da anni su queste colonne – avrebbe bisogno un partito come il Pd veneto per tentare di uscire da una subalterni­tà storica, anche solo per invertire una tendenza che ha assunto caratteri perfino inquietant­i. Non di sedute di auto coscien za collettiva all’insegna del «siamo tutti colpevoli», o dei pannicelli caldi proposti da un simpatico, quanto sprovvedut­o, ministro in gita. Ma di un confronto interno autentico, senza diplomazie, senza giochetti, senza mediazioni al ribasso. Di una presenza sul territorio non confinata alle poche settimane della campagna elettorale, ma coestensiv­a alla vita delle comunità. Di una internità ai processi di trasformaz­ione in corso nella regione, e di una capacità di dialogare costruttiv­amente con i soggetti di questi processi. Di una sensibilit­à in senso lato «culturale» a cogliere i tanti, e spesso contraddit­tori, messaggi provenient­i da una società dinamica e mutevole, quale è quella veneta, senza andare sempre penosament­e a rimorchio delle iniziative assunte a livello centrale, senza scimmiotta­re il renzismo nelle sue espression­i deteriori, trascurand­o insieme quel tanto di buono e di nuovo che pure vi è nella leadership renziana. Riuscirà in questa impresa un partito ormai ridotto ai minimi termini, capace fra l’altro di perdere due comuni fondamenta­li, quali Padova e Venezia, nel giro di pochi mesi? Ad essere schietti, i segnali che vengono, anche dall’assise recente, non sono rassicuran­ti. A meno che non valga il verso del poeta: «là dove c’è il pericolo, lì cresce anche ciò che salva».

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