Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Vajont, le carte e l’archivio a rischio chiusura
I l giorno dell’anniversario della tragedia del Vajont (9 ottobre 1963) allarme sul futuro dell’Archivio di Stato di Belluno, che contiene le carte dei processi.
Il Vajont è sempre scomodo, perché ha scoperchiato ferite mai sanate. Bastano le 1910 vittime per ricordare che fu la più grande tragedia europea dopo la seconda guerra mondiale fino alla catastrofe di Cernobyl, che però non è mai entrato nella coscienza etica e civile degli italiani. Anzi, ne è stato sempre e continuamente rimosso. Il Vajont però può parlare ancora e ridestare la memoria. Anche attraverso le carte del processo, arrivate «temporaneamente» nell’Archivio di Stato di Belluno dopo il terremoto dell’Aquila dell’aprile 2009, dove si trovavano e furono sepolte dalle macerie del sisma che distrussero anche il locale Archivio di Stato. Quasi una forma di risarcimento morale al territorio che aveva conosciuto la tragedia. Eppure quelle carte - ben più di 150.000 - non hanno requie, perché rischiano ancora una volta di non sapere che fine faranno. Sì, perché sta avanzando un’ipotesi pericolosa, di possibile chiusura dell’Archivio di Stato di Belluno. La conseguenza di un simile atto sarebbe il depauperamento della storia di Belluno e del suo territorio, privato di un riferimento istituzionale fondamentale per la sua conoscenza, e sottratto dei suoi documenti secolari, cioè le carte della storia, che verrebbero smembrate in diverse sedi. Una sede prestigiosa, quella dell’Archivio di Stato di Belluno, il cui corpo originale risale al 1330. L’organico di sei persone con qualifica amministrativa (compresi custodi e uscieri) non basta a coprire le funzioni di una archivio, che non conosce attualmente alcuna copertura in organico con la qualifica di «archivista», tranne la figura apicale del direttore, che attualmente è ricoperta pro tempore a scadenza da un dirigente che è direttore in pianta organica in sede di archivio collocato in altra provincia. Non bastano la sola competenza professionale e la disponibilità lavorativa di questo personale limitato nel numero a soddisfare le necessità di un’istituzione che assolve le funzioni di raccolta e conservazione degli archivi prodotti nel territorio da enti pubblici, ma anche privati, e altresì di assistenza per chi consulta i documenti, allestimenti culturali di mostre, di attività didattiche con le scuole . In tutto ciò, che ci si fa di quelle scartoffie del Vajont, si chiese qualcuno? Ma proprio quelle carte sono il mezzo che ci riconduce alla memoria individuale e collettiva della tragedia del Vajont. Basta prenderne in mano qualcuna per rendersene conto.
La sera del 9 ottobre 1963 una pattuglia della polizia stradale stava tornando a Belluno in auto dopo un pattugliamento compiuto sulle strade del Cadore. A Termine di Cadore il capo pattuglia che stava al volante della macchina «percepiva uno sbandamento della stessa verso sinistra, per effetto del quale andava a fermarsi in una piazzola di deposito di ghiaia», perché riteneva di «essere stato colto da malore». Quindi «si accingeva a scendere quando notava piombare nel buio più assoluto la vallata a lui antistante ed indi percepiva un fragore immane ed un vento fortissimo che soffiava dalla direzione opposta e trasportava acqua polverizzata». Allora pensò che «la diga del Vajont era crollata». Il medico condotto di Longarone, Gianfranco Trevisan, che subito dopo il disastro si mise alla ricerca di sopravvissuti, rinvenendo tra gli altri un bambino che «era stato ritrovato oltre la ferrovia a ridosso della sponda del Piave. Il ragazzo parlava e mi riferì che stava dormendo a letto e di essersi trovato dove venne soccorso senza sapere il perché».
La telefonista della centrale di Longarone, Maria Capraro, la sera di quel 9 ottobre non potè trattenersi dall’intromettersi nelle concitate conversazioni telefoniche che sentiva in cuffia: «Preoccupata, chiesi se vi era qualche pericolo anche per Longarone, precisando che avevo una bambina. Al che [l’interlocutore] mi rispose che per Longarone non vi era alcun pericolo».
Memorie personali che sono alla base di una memoria collettiva ancora da ricomporre. Dove finirà l’Archivio del processo Vajont? Non resta che augurarci che questo archivio ritorni nella sede del suo titolare ufficiale, all’Aquila, prima che si verifichi un altro diverso evento disastroso. E dire che era stata messa in atto un’iniziativa per chiedere il suo riconoscimento nel Registro della memoria internazionale del mondo dell’Unesco. Ma quale memoria se si corre il rischio dello smarrimento delle carte della memoria? * già professore di storia
contemporanea nell’Università di Venezia
A Belluno Personale all’osso, incombe la minaccia dei tagli Il caso I faldoni arrivati dopo il terremoto dell’Aquila del 2009