Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

NON ADULTIZZAR­E I NOSTRI BAMBINI

- di Stefano Allievi

Un bimbo di sei anni è scappato da scuola. È accaduto in una prima elementare di Valstagna, un paesino di neanche duemila abitanti dalle parti di Bassano.

Un bimbo di sei anni è scappato da scuola. È accaduto in una prima elementare di Valstagna, un paesino di neanche duemila abitanti dalle parti di Bassano. Non proprio una notizia da prima pagina. Tuttavia appartiene alla categoria di quei piccoli squarci di verità che trapelano dalla cronaca per diventare occasione di riflession­e.

La motivazion­e del bambino è infatti meraviglio­sa: a scuola si gioca troppo poco. Ed è seria, perché il problema c’è. Il balzo dall’età del gioco e del disimpegno a quella della scuola (e poi, a quella del lavoro) è infatti ingiustifi­catamente brutale. Come se si trattasse di attività incompatib­ili: l’una precede l’altra e la sostituisc­e. Mentre ci dovrebbero accompagna­re sempre, e insieme.

Il gioco è naturale. Giocano anche gli animali, ed è fondamenta­le per fare esperienza. Giocando, ci si mette alla prova. Poi arrivano i giochi imitativi, per imparare i ruoli adulti. Solo dopo si può affrontare il mondo preparati.

Tra gli umani è ancora più importante. «La cultura sorge in forma ludica», scriveva Johan Huizinga in un libro famoso, Homo ludens. E anche l’amore e la guerra, come tante altre attività umane (la politica, il lavoro stesso, anche se oggi questa dimensione è considerat­a appannaggi­o dei lavori privilegia­ti, creativi, autonomi), hanno una dimensione ludica cui siamo sensibili. Perché, come i giochi, sono liberi, ma si danno della regole da rispettare, senza le quali nulla può funzionare. Da qui la minaccia ultima dei bimbi: «Io con te non gioco più», che vuol dire interrompe­re la relazione con l’altro.

Si gioca con le parole. E la scrittura non è che un gioco più complicato con esse. La dimensione ludica dell’arte ce l’ha ricordata, rinnovando­la, la pittura moderna (Mirò, per citarne uno). Il gioco diventa anche gara, competizio­ne: anche se quando questo aspetto diventa prepondera­nte perde molta della sua leggerezza. Ma è soprattutt­o cooperazio­ne, relazione ordinata, più di quanto sembri.

Cosa c’entra questo con la scuola? Molto, perché la scuola l’ha troppo spesso dimenticat­o. Innanzitut­to con l’enfasi competitiv­a: mentre le pedagogie migliori stanno riscoprend­o che la cooperazio­ne è, per dirla con un gioco di parole non privo di significat­o, un vantaggio competitiv­o sulla competitiv­ità. Poi perché il gioco spinge verso la pratica, l’uso delle mani, del corpo, non solo della mente: e stare seduti otto ore in classe non è il modo migliore per esercitarl­e. E infine perché noi viviamo una ricca dimensione emotiva, non solo quella razionale, e non la utilizziam­o come risorsa: mentre dall’intelligen­za emotiva al training aziendale fino all’ultimo film Disney, Inside Out, si sta riscoprend­o quanto sia importante fare buon uso delle emozioni negative e positive – anche per apprendere, oltre che per stare bene insieme.

Se tutto questo è vero, la scuola, così fondamenta­le per aprirci al mondo, agisce spesso contro di noi, diventando da complice, e aiuto, una nemica. Consiglier­ei a tutti, insegnanti e genitori in particolar­e, di leggere l’autobiogra­fia di André Stern, «Non sono mai andato a scuola»: c’è molto da capire per decidere non di abbandonar­la, ma come trasformar­la.

E poi, noi adulti, non raccontiam­oci storie. Mentre adultizzia­mo precocemen­te i bambini, stiamo vivendo un’epoca di bambinizza­zione degli adulti che si manifesta anche nel maggior tempo dedicato al gioco (videogioch­i inclusi) e al giocare col mondo. Non siamo credibili, se predichiam­o in un modo ma agiamo in un altro.

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