Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
VOLTAIRE MUORE A PADOVA
Avremmo fatto volentieri a meno di ritornare sulla questione dei libri cosiddetti gender: un’etichetta già di per sé poco chiara, al punto che, a seconda di chi la usa, viene stirata estensivamente per includere tutto ciò che sembra alludere a qualcosa di diverso da una presunta normalità (magari anche solo l’amicizia tra un orso e un topolino), o ridotta ai pochi testi che parlano di modelli familiari diversi dalla famiglia tradizionale, e in particolare di coppie omosessuali. Il problema, in effetti, è che non ha senso una campagna «no gender» in quanto non esiste un gruppo o una fantomatica ideologia «sì gender»: esistono persone che si interrogano, dando risposte assai differenziate, su come affrontare una innegabile trasformazione dei modelli familiari, e anche come spiegarla. Da qui la surreale discussione sui libri cosiddetti gender, e le conseguenti campagne per toglierli dalle pubbliche biblioteche e dalle scuole. Su questo tema siamo già intervenuti criticamente. Ma il problema vero è nel metodo: ci sembra assurdo che si possa ancora discutere, nel 2015, sulla liceità di alcuni libri rispetto ad altri, sulla libertà di parlarne e di utilizzarli, addirittura sulla loro pericolosità. E che esistano quindi commissioni, come a Venezia, che perdono tempo a discutere di queste ridicole e provincialissime purghe (peraltro allungando ogni volta la lista dei libri all’indice: tra un po’ verrà messa on line e distribuita nelle biblioteche, come erano distribuiti alle parrocchie, in tempi non troppo lontani, l’indice dei libri proibiti e la lista dei film sconsigliati).
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Ed è di conseguenza ancora più assurdo - e ridicolo se non fosse un argomento terribilmente serio – che si possa proibire il fatto di poterne parlare, tra adulti, in un luogo pubblico: che si tratti di una piazza o di una sala comunale; come si sente invece in diritto di fare il sindaco Bitonci. Non c’è bisogno di scomodare Voltaire: basta il buon senso per capire che si tratta di atteggiamenti infantili. Il problema è che stiamo parlando di adulti, che oltre tutto, per la carica che hanno, rappresentano tutti i cittadini, non solo una parte politica, o un partito preso ideologico (è ancora fresco, di pochi giorni fa, l’ennesimo episodio dell’ossessione antigender dell’assessore regionale all’istruzione Donazzan: capace di denunciare una pericolosa testimonianza del «furore ideologico gender», testuale, nell’innocua espressione «genitori o chi ne fa le veci», presente nei documenti, pare, dai tempi del ministro Bottai, 1938 – fascismo, per chi non se lo ricordasse: e l’assessore Donazzan dovrebbe ricordarselo). In ballo c’è la libertà di discussione nello spazio pubblico. Sappiamo che nella concessione degli spazi comunali ci può essere anche un qualche elemento di discrezionalità. Un sindaco è chiamato a vegliare sulla sua comunità: se si vuole, per prendere in prestito un’espressione del linguaggio giuridico, con la diligenza di un buon padre di famiglia. Ma è anche vero che tale eventuale discrezionalità dovrebbe essere esercitata con una notevolissima misura, per cose particolarmente gravi, pericolose per l’ordine pubblico o offensive per alcune categorie di cittadini. Il sindaco ha già mostrato in passato di avere un’idea un po’ troppo larga delle sue prerogative: negando le sale pubbliche (pubbliche: non sue), per un certo periodo, ai partiti che gli fanno opposizione, e poi a iniziative della società civile che gli erano indigeste (chiudendo le porte, pochi mesi fa, a una iniziativa di Amnesty International sull’islam). La diciamo semplice: un padre di famiglia, quando esagera con i divieti, fa un cattivo servizio a se stesso, e rende invivibile la sua famiglia. Un po’ di counseling familiare aiuterebbe.