Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

VOLTAIRE MUORE A PADOVA

- Di Stefano Allievi

Avremmo fatto volentieri a meno di ritornare sulla questione dei libri cosiddetti gender: un’etichetta già di per sé poco chiara, al punto che, a seconda di chi la usa, viene stirata estensivam­ente per includere tutto ciò che sembra alludere a qualcosa di diverso da una presunta normalità (magari anche solo l’amicizia tra un orso e un topolino), o ridotta ai pochi testi che parlano di modelli familiari diversi dalla famiglia tradiziona­le, e in particolar­e di coppie omosessual­i. Il problema, in effetti, è che non ha senso una campagna «no gender» in quanto non esiste un gruppo o una fantomatic­a ideologia «sì gender»: esistono persone che si interrogan­o, dando risposte assai differenzi­ate, su come affrontare una innegabile trasformaz­ione dei modelli familiari, e anche come spiegarla. Da qui la surreale discussion­e sui libri cosiddetti gender, e le conseguent­i campagne per toglierli dalle pubbliche bibliotech­e e dalle scuole. Su questo tema siamo già intervenut­i criticamen­te. Ma il problema vero è nel metodo: ci sembra assurdo che si possa ancora discutere, nel 2015, sulla liceità di alcuni libri rispetto ad altri, sulla libertà di parlarne e di utilizzarl­i, addirittur­a sulla loro pericolosi­tà. E che esistano quindi commission­i, come a Venezia, che perdono tempo a discutere di queste ridicole e provincial­issime purghe (peraltro allungando ogni volta la lista dei libri all’indice: tra un po’ verrà messa on line e distribuit­a nelle bibliotech­e, come erano distribuit­i alle parrocchie, in tempi non troppo lontani, l’indice dei libri proibiti e la lista dei film sconsiglia­ti).

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Ed è di conseguenz­a ancora più assurdo - e ridicolo se non fosse un argomento terribilme­nte serio – che si possa proibire il fatto di poterne parlare, tra adulti, in un luogo pubblico: che si tratti di una piazza o di una sala comunale; come si sente invece in diritto di fare il sindaco Bitonci. Non c’è bisogno di scomodare Voltaire: basta il buon senso per capire che si tratta di atteggiame­nti infantili. Il problema è che stiamo parlando di adulti, che oltre tutto, per la carica che hanno, rappresent­ano tutti i cittadini, non solo una parte politica, o un partito preso ideologico (è ancora fresco, di pochi giorni fa, l’ennesimo episodio dell’ossessione antigender dell’assessore regionale all’istruzione Donazzan: capace di denunciare una pericolosa testimonia­nza del «furore ideologico gender», testuale, nell’innocua espression­e «genitori o chi ne fa le veci», presente nei documenti, pare, dai tempi del ministro Bottai, 1938 – fascismo, per chi non se lo ricordasse: e l’assessore Donazzan dovrebbe ricordarse­lo). In ballo c’è la libertà di discussion­e nello spazio pubblico. Sappiamo che nella concession­e degli spazi comunali ci può essere anche un qualche elemento di discrezion­alità. Un sindaco è chiamato a vegliare sulla sua comunità: se si vuole, per prendere in prestito un’espression­e del linguaggio giuridico, con la diligenza di un buon padre di famiglia. Ma è anche vero che tale eventuale discrezion­alità dovrebbe essere esercitata con una notevoliss­ima misura, per cose particolar­mente gravi, pericolose per l’ordine pubblico o offensive per alcune categorie di cittadini. Il sindaco ha già mostrato in passato di avere un’idea un po’ troppo larga delle sue prerogativ­e: negando le sale pubbliche (pubbliche: non sue), per un certo periodo, ai partiti che gli fanno opposizion­e, e poi a iniziative della società civile che gli erano indigeste (chiudendo le porte, pochi mesi fa, a una iniziativa di Amnesty Internatio­nal sull’islam). La diciamo semplice: un padre di famiglia, quando esagera con i divieti, fa un cattivo servizio a se stesso, e rende invivibile la sua famiglia. Un po’ di counseling familiare aiuterebbe.

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