Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
IN QUELLA MORTE C’È TANTO AMORE
Prima che un fatto di cronaca drammatico e grandioso come l’omicidio-suicidio di Mestre esca dalla nostra corta memoria, pongo una domanda che riguarda tutta l’umanità: può essere buono un uxoricidio? Può essere un atto di amore? Può, dopo l’orrore e il terrore suscitato negli astanti, trasformarsi per loro in commozione? La mia risposta, per quel che vale, è sì. Prima di tutto, la decisione dei due coniugi ultranovantenni di morire insieme è un atto di libertà. Ma subito dopo, o insieme, è un atto d’amore, specie da parte dell’uomo che ha sparato a lei e a se stesso. Amore per la compagna di oltre sessant’anni di vita che gli chiedeva di non lasciarla vivere senza di lui. Dopo un rapporto sopravvissuto al tempo, in cui i due continuavano a chiamarsi «amore» come due fidanzatini, in un’epoca in cui i matrimoni si spezzano dopo pochi anni o mesi, questo sentimento è un esempio fulgido che obbliga a pensare. Anche verso le figlie, alle quali è stata scritta una lettera di scuse e spiegazioni, è stato un atto d’amore: per evitargli sacrifici, per non essergli di peso.
L’uxoricidio-suicidio dei due coniugi mestrini dovrebbe chiamarsi «Amore», esattamente come quello degli anziani coniugi del bellissimo film «Amour», in cui l’uomo, prima di suicidarsi, dà la morte alla sua donna malata di Alzheimer. L’amore, durante tutta la vita del nostro conterraneo, s’era espresso in tanti altri modi. Amore per la giustizia e la libertà quando, in epoca fascista, era entrato nelle file della Resistenza. Amore per la professione di ingegnere, crostruttore di un intero quartiere della sua città. Amore per l’arte, che lo aveva portato a dipingere centinaia di quadri. Amore infine per chi era povero, solo, vecchio, che gli aveva suggerito atti di generosità come donare, a un parroco amico, 100 mila euro per contribuire alla costruzione di case di riposo, I colpi di pistola, contro la moglie e contro di sé, non contraddicono questa vita costellata di atti d’amore. Ma ne sono la prosecuzione e la conclusione. Un amore che in molti aspetti non si discosta da quello che ci hanno insegnato Gesù, Socrate o Gandhi. Un amore che è umanesimo, che ha ispirato le aperture ai non credenti di papa Bergoglio, e prima ancora del cardinale Martini, il quale ha addirittura creato una cattedra dei non credenti. Di cui l’uno e l’altro religioso, oltre la dottrina, hanno apprezzato la caritas, la più importante delle virtù teologali: riconoscendola anche nelle esperienze dei non credenti. Per i quali tien luogo, equivalente, di Dio.