Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
LEGA E INDUSTRIALI DOPPIO BINARIO
Gli applausi degli industriali veneti a Renzi non sono ancora stati digeriti. Il leader della Lega, Salvini, accusa gli industriali di essere filogovernativi con chiunque: Berlusconi, Monti, oggi Renzi (e, in Veneto, Zaia). Come dire: vanno dove è il potere, corrivi. Senza capire che gli industriali sono filogovernativi perché hanno bisogno come l’aria di riforme, e le chiedono a chi le può fare, cioè i governi: e, soprattutto, sostengono chi le fa davvero. Tanto è vero che la loro prima grande ribellione è avvenuta con Berlusconi: uno di loro, che capiva quel mondo perché ne condivideva i problemi, sostenuto con entusiasmo per dare una spallata all’intero sistema di potere della prima repubblica. E abbandonato solo all’ultimo, quando si è dovuto comprendere che le promesse fatte non sarebbero state mantenute: che il linguaggio apparentemente liberale nascondeva un potere incapace di esserlo davvero, e assai più simile al mondo che criticava – la prima repubblica, appunto – di quanto il discorso ufficiale facesse presagire. Convinto anche il sostegno iniziale a Monti, il tecnico: la cui promessa era intrisa di ragionevole buongoverno, e di buone relazioni europee. Già con Letta il discorso è stato diverso: platealmente sfiduciato da Confindustria (e, peraltro, anche dal sindacato e da altri) ben prima della sfiducia interna al Pd che ha portato Renzi al governo al suo posto – che è stata più la conseguenza che la causa. Perché, nonostante le buone relazioni con il mondo dell’impresa, e le buone intenzioni – e anche la stima alla persona – era il patto che sosteneva Letta a rivelarsi debole, vecchio culturalmente, inadatto ad affrontare con la necessaria rapidità le sfide sul campo. Per quello, lo slancio di un rottamatore si sarebbe rivelato più efficace. E, finora, è stato così. Salvini del resto ha poco da stupirsi, se non entusiasma in quel mondo (o ne entusiasma solo l’emisfero destro, la parte emotiva, legata agli istinti e alla pancia; mentre quello sinistro, razionale, lo rifiuta). Quella leghista è, dalle origini, una cultura sostanzialmente antiindustriale, talvolta pre-industriale. Il sostegno di tanti piccoli industriali lo si deve alla promessa di buongoverno, di far funzionare le cose al di là delle ideologie, di radicamento locale e quindi di conoscenza del territorio (il federalismo oggi messo da parte), di pragmatismo (la ricetta con cui Zaia del resto ha stravinto), non certo alle politiche di impresa e alla cultura liberale. Tanto è vero che, tra le molte organizzazioni leghiste, se ce n’è una che non ha mai decollato è proprio quella degli imprenditori padani.
E le ragioni ci sono: gli imprenditori vivono nel mercato e di mercato; la Lega, spesso, dà l’impressione di vivere altrove. Va bene finché si tratta di protestare, giustamente, contro le tasse malspese a Roma o nel Sud. Già non va più bene quando non si pagano le quote latte: una battaglia minoritaria, corporativa, di per sé antiindustriale, che peraltro è già costata e costerà ancora moltissimo a noi tutti. Va ancora meno bene quando si promette una flat tax che non potrebbe funzionare. E va decisamente peggio quando si vagheggia l’uscita da un euro che per la grande maggioranza degli imprenditori è invece una polizza di assicurazione contro i mali italiani. Ma c’è anche un problema più ampio: di visione, di prospettiva. Un’economia liberale ha bisogno di una cultura liberale che la sostenga, e di una coerenza tra le due. Il premier Renzi ha mostrato – forse per la prima volta nella storia recente d’Italia, non con le parole, ma con i fatti e le riforme – di possederle entrambe; Salvini e la sua Lega no. Non si può immaginare di promuovere un’economia liberale partendo da presupposti illiberali su tutto: sui diritti, sulla famiglia, sull’immigrazione. Alla lunga la contraddizione stride. E si fa insostenibile. Persino in un Veneto che alla Lega sarebbe ancora disposto a dare fiducia: sostenendo Zaia il pragmatico, però, non Salvini l’ideologo. Anche nelle urne.