Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Sindaci, non basta il carisma per governare una città complessa
Si direbbe che è il tempo dei sindaci. Del sindaco di Verona, Flavio Tosi, il quale ha spiazzato un po’ tutti, manifestando l’inclinazione a convergere in una futura alleanza con Renzi, in vista delle prossime elezioni politiche. Del sindaco di Venezia, assurto agli onori della cronaca, per aver dimostrato di non cogliere alcuna differenza fra un quadro di Klimt e una squadra di basket, in base al criterio di quanto entrambi possono valere in un’operazione di compravendita. Del sindaco di Padova, infaticabile nell’inventare ogni giorno qualche pretesto in più per confermare la sua idea di città inospitale e non accogliente. Per non parlare di Marino. Anzi, per parlare proprio di Marino. Nel frastuono suscitato dalle dimissioni dell’inquilino del Campidoglio, è stato totalmente ignorato l’unico piano di analisi che può consentire di capire che cosa sia veramente accaduto, e quali insegnamenti se ne possono trarre anche per quanto riguarda i primi cittadini del Veneto. Per dirla in estrema sintesi, si dovrebbe formulare quello che può sembrare un paradosso: Ignazio Marino ha fatto concretamente un non trascurabile numero di buone cose (anche se meno di quelle da lui rivendicate) ed è stato un cattivo sindaco. Cancellare una delle due componenti di questa affermazione, solo allo scopo di evitare quella che sembra una contraddizione logica, è una scorciatoia che non porta in realtà da nessuna parte. Mentre se si vuole capire fino in fondo la vicenda romana, bisogna avere il coraggio di sfidare ciò che sembrerebbe imposto dal buon senso, coniugando – anziché contrapponendo – la molteplicità delle azioni positive con la complessiva inadeguatezza del lavoro fatto. Quanto è accaduto a Roma conferma infatti una verità di grande rilievo, tuttora ignorata o fraintesa, quale è la pratica impossibilità di «governare» una realtà complessa e stratificata, quale è quella di una medio-grande (e più ancora di una metropoli), servendosi degli strumenti tradizionali della politica. Se ci si limita soltanto a questi, si potranno mettere in fila, nella migliore delle ipotesi, una serie di provvedimenti positivi, senza tuttavia essere minimamente in grado di modificare l’andamento reale di processi la cui morfologia, e le cui dinamiche, restano sostanzialmente intangibili, o sono comunque sottratti alle limitate capacità di intervento di una figura, quale è il sindaco. Il caso di Roma è, da questo punto di vista, emblematico, ma non unico. Nella capitale, come e più che altrove, la crescita della complessità sociale, la proliferazione di agglomerati di interessi, non sempre né tutti leciti, la pluralità di soggetti in grado di gestire quote di potere effettivo, rendono puramente illusoria ogni pretesa di “governo” centralizzato e visibile, in favore di un assetto in cui le decisioni sfuggono alle maglie strette della politica e scaturiscono dal sopravvento di soggettività informali, che restano in larga misura occulte, o che comunque non «rispondono» a chicchessia del potere effettivamente esercitato. Di qui il diffondersi e il perpetuarsi di una situazione nella quale l’illegalità non è il frutto della devianza settoriale e circoscritta di alcune individualità isolate, ma coincide piuttosto col modo di essere e di funzionare del sistema in quanto tale. La parabola di Marino, salito al Campidoglio con l’intento programmatico di moralizzare la vita politica romana, e poi travolto da un’ondata moralizzatrice, è paradigmatica dello scacco a cui è intrinsecamente esposta una politica che intenda misurarsi con una realtà economico-sociale che sfugge ad ogni possibilità di controllo o di condizionamento esogeno. Di qui un’implicazione decisiva: per essere all’altezza dei problemi reali di una città moderna, una proposta politica non può esaurirsi nella figura di un candidato più o meno provvisto di carisma, ma dovrebbe includere principalmente un progetto dettagliato, capace di restituire alla politica una concreta possibilità di incidenza reale. Altrimenti, sarà inevitabile che, chiunque sia, anche il prossimo sindaco di Milano e Roma o delle città venete, presto o tardi finisca per condividere la sorte del povero Marino.