Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Il dibattito Curi: «Terrorismo parola inflazionata, tra la lotta armata e i kamikaze»
Sarà discusso oggi alle 17, in piazza Primo Maggio a Montegrotto Terme (Pd), nel corso della «Fiera delle parole», l’ultimo libro di Umberto Curi, I figli di Ares. Terrorismo e guerra infinita (Castelvecchi, 140 pagine, 16,50 euro). Ne abbiamo parlato con l’autore, che oggi ne discuterà insieme a Giulio Giorello dell’università di Milano.
Professor Curi, nel suo libro lei suggerisce di operare una «pulizia terminologica» che possa fare luce su una questione così controversa della quale si è fatto e si continua a fare un uso improprio, se non un abuso.
«Da anni vado ripetendo che quella di terrorismo, nel modo in cui viene soprattutto usata nel nostro Paese, non è una categoria politica, ma una risorsa emotiva, al servizio di quel totalitarismo a cui prima mi sono riferito. Come si fa a non cogliere le differenze abissali fra gli eccidi di matriattraverso ce jiadista e le imprese delle Brigate Rosse o di Prima linea? Come è possibile «leggere» questi fenomeni, fra loro perfino incommensurabili, un termine così inflazionato, e insieme così insignificante, quale è quello di terrorismo? Il primo e più importante elemento di identificazione del terrorismo, in una storia che conta ormai più di due secoli, è lo sparare nel mucchio, il colpire a caso, facendo strage di vittime innocenti. Mi si citi un solo delitto delle BR che sia stato commesso a caso, e non piuttosto specificamente mirato sulla base di una strategia politica estremamente accorta nella scelta degli obbiettivi. Colpire il giudice Sossi alla vigilia del referendum, rapire e uccidere Aldo Moro il giorno dell’insediamento del primo governo con la presenza del PCI, sequestrare il dirigente di industria durante la fase delle lotte operaie, non è semplicemente terrorismo. E’ qualcosa di completamente diverso (forse perfino più pericoloso), si chiama piuttosto lotta armata, e corrisponde a una strategia politica ben definita. In Italia abbiamo avuto l’esperienza del terrorismo in senso proprio: Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Italicus, ecc., vale a dire le grandi stragi di vittime del tutto innocenti, per le quali tuttora non si conoscono mandanti ed esecutori materiali, se non quella piccola manovalanza imbevuta di ideologia neofascista, che si è offerta per la realizzazione di un disegno che resta in larga misura ancora sconosciuto».
La forma più frequente assunta dal terrorismo jiadista è quella del kamikaze. Come giudica questa scelta?
«Si può rispondere con due immagini che a me appaiono altamente rappresentative. Il militare americano oggi è in grado di scatenare una potenza aggressiva di proporzioni sconvolgenti standosene seduto davanti a una consolle, mediante la quale guida la rotta e le operazioni di un drone, capace di rovesciare un impressionante volume di fuoco su obbiettivi lontanissimi dagli USA, senza rischiare nulla, né tanto meno mettere in gioco la propria vita. Un film recente, di per sé, non particolarmente riuscito, ma efficace, quale è Il diritto di uccidere, illustra molto bene questa possibilità, mostrando la totale estraneità del militare dallo specifico teatro di guerra, situato a migliaia di chilometri di distanza. Come è noto, d’altra parte, soprattutto (ma non solo) con l’amministrazione Obama, gli Stati Uniti hanno rinunciato a effettuare operazioni belliche «stivali sul terreno», optando per azioni da lontano, nelle quali è azzerato il rischio per gli operatori. A fronte di questa rilevantissima variante della forma classica di guerra, lungo una linea che va dal combattimento corpo a corpo dell’antichità, fino alla totale spersonalizzazione del drone telecomandato, il militante della Jihad trasforma in arma il suo stesso corpo. L’asimmetria non potrebbe essere più netta, perfino didascalica. Fra le conseguenze di questo processo di trasformazione, ve ne è una che dovrebbe apparire intuitiva, alla quale possiamo qui solo accennare. Se davvero vogliamo ridurre o cancellare la minaccia terroristica, l’unica strada è disarmare coloro che vogliono colpirci. Ma se – come si è detto – l’arma è il loro stesso corpo, è la loro stessa vita, allora disarmare vorrebbe dire restituire valore e dignità ad una vita che viene invece spontaneamente degradata ad arma di combattimento. Ma, sfortunatamente, non è certo questa la direzione che l’Occidente ha imboccato per fronteggiare la minaccia globale. Ci attendono – attendono noi e credo anche i nostri figli – anni molto difficili».