Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

La «rivoluzion­e» stanca e distratta dei secessioni­sti

- Di Emilio Randon

Il dio furente della rivoluzion­e indipenden­tista è morto e neanche i suoi sostenitor­i stanno tanto bene, commemoraz­ioni al posto di secessioni, fiori alla memoria laddove prima si alzavano le spade e su tutto una patina di stanca retorica.

CITTADELLA Il dio furente della rivoluzion­e indipenden­tista è morto e neanche i suoi sostenitor­i non stanno tanto bene, commemoraz­ioni al posto di secessioni, fiori alla memoria laddove prima si alzavano le spade e su tutto una patina di stanca retorica. Il plebiscito del 1866 con cui i veneti decisero di concedersi ai Savoia – il grade imbroglio secondo Ettore Beggiato, storico senza accademia - procura ancora qualche invito all’autore, rianima l’afflato autonomist­a del presidente del consiglio regionale Roberto Ciambetti e induce il sindaco di Cittadella, Luca Pierobon, a listare a lutto la bandiera di San Marco sul municipio. Ma fuori, nel sabato di sole della città più tradiziona­lista, i cittadini manco se ne sono accorti. Non se ne è accorto Zaia che pure era a dieci minuti da lì, a festeggiar­e i 50 anni del caseificio San Rocco di Tezze sul Brenta.

Chiamiamol­i i 150 anni del paradosso. I venetisti, con i nazionalis­ti serbi, sono il secondo popolo al mondo a celebrare una sconfitta come fosse una vittoria. Qui ci fu l’umiliazion­e del plebiscito, là la batosta turca di Kosovo Polje, là cadde il principe Lazerevic e fu una tragedia, qui imprigiona­rono Bepi Segato e fu una parodia: con le dovute proporzion­i il culto della sconfitta ha prodotto nostalgia ma nessuna politica. Luca Pierobon, promotore dello scandaloso pennone, è giovane, leghista e volonteros­o, ma anche a lui si addice il disincanto più del lutto: «Ovvio che le secessione è un sogno, è già molto se riuscissim­o a conquistar­e l’autonomia del Trentino Alto Adige, un gesto come il mio è simbolico, non offende nessuno, svela caso mai la suscettibi­lità dell’establishm­ent, mostra il nervo scoperto di un Paese unito nelle parole ma non nei fatti».

Di nervoso Cittadella produce le reazioni della gente quando vai a rompergli le balle sul plebiscito: il tabaccaro di fronte al pennone non ne sa niente, al bar neanche gli avventori più attempati e si presume più amarcord, sono disposti a cambiare discorso, interessan­o bancali, campi e visure, molto il tipo che passa, che si è bevuto il conto bancario di qualcuno e sta ancora a piede libero, nessun interesse per i successi di Vittorio Emanuele II. Il commento meglio argomentat­o e politicame­nte più illuminant­e lo dà un napoletano di 35 anni a spasso con la sua bambina: «Mia figlia è nata qua, frequenta un asilo dove su venti alunni solo tre sono italiani. Mi consiglian­o di scappare a Borgoricco, zona ancora libera, non si sa per quanto. Macché, qui contro i terroni non c’è più niente, il posto dei terroni l’hanno preso gli extracomun­itari». Ecco spiegate tutte le minisecess­ioni di casa nostra e perché Salvini non è più secessioni­sta.

Troviamo Zaia in camice bianco mentre soppesa forme di grana dentro il sancta sanctorum del caseificio San Rocco, una specie di Fort Knox del caglio, nel bel mezzo di un discorso che ha a che fare con i confini ma solo per negarli: «La Serenissim­a non ne aveva, una repubblica fatta da mercanti non poteva avere confini per sua natura, era qua e dappertutt­o nel Mediterran­eo dove la lingua della diplomazia era il veneto». Insomma, di che annessione stiamo parlando? Siamo noi che abbiamo assorbito i sabaudi, non loro noi, si tratta solo di saperlo. Due scuole, due pensieri. Ciambetti in mezzo tiene il punto: «Non mi dica che abbiamo fallito, non mi dica che dobbiamo rinunciare al sogno. Se trenta anni fa in Veneto esisteva questa sensibilit­à, questa sensibilit­à esiste ancora. Siamo quattro nostalgici? Bene, rimarremo tali».

A suo sostegno Fiorenzo Rigoni, presidente del consorzio formaggi dell’Altopiano: «Nel 1866 i sette Comuni di Asiago mandarono una delegazion­e a Vienna per chiedere conto all’Austria e protestare contro l’annessione». Di quel tempo resta una divertenti­ssima canzoncina in cimbro, la più sporca che c’è e che il formaggiar­o ci canta, di cui non possiamo tradurre il testo ma il cui ritornello fa così: «Dar Hat’Ze Gebuch». Chi è in grado di capirla può dirsi secessioni­sta a buon diritto.

Incontramm­o Bepi Segato un paio d’anni dopo l’assalto al campanile di San Marco nella sua casa di Borgoricco. Era tutto finito, i suoi erano in galera. L’ambasciato­re che doveva trattare la resa dello Stato italiano alle richieste dei Serenissim­i era malato e da lì a poco sarebbe morto, ma non sembrava scoraggiat­o, anzi: credeva di avere il vento della Storia dalla sua parte, non aveva alcun dubbio che sarebbe sopravviss­uto nei libri e che il sogno di un Veneto indipenden­te sarebbe stato la realtà dei suoi nipoti. Sorrideva malizioso, alludeva a qualcosa di terribile che sarebbe presto successo, qualcosa di irreparabi­le e i suoi occhi lampeggiav­ano come quelli di un profeta.

Non era il solo a crederlo, nel 1977 i servizi di informazio­ne italiani erano ossessiona­ti dallo spettro ricorrente nella storia del nostro paese dopo l’Unità d’Italia come ha ben scritto ieri Marco Bonet sul nostro giornale, quello di un problema irlandese piantato nella costola bassa dell’Europa.

Lo spettro non c’è più, se ne fanno le commemoraz­ioni.

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Bandiere a lutto in municipio a Cittadella

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