Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

LA LINGUA E LO SCUDO DEI POLITICI

- Di Lorenzo Tomasin

Primo. Usare la lingua come pretesto o schermo per rivendicaz­ioni politiche, anche legittime, che non riguardano la lingua ma l’economia o altri aspetti del vivere sociale, è una scelta pericolosa. Ed è tanto più rischiosa quando, proprio a motivo della natura pretestuos­a di certi argomenti, i dibattiti sulla lingua, sul suo uso, sul suo insegnamen­to e sulla sua diffusione non sono affidati a linguisti, cioè a esperti profession­ali di questa materia. Ciò che vale per l’economia o per la medicina non può che valere anche per la lingua, che è usata da tutti – esattament­e come lo sono i soldi o i farmaci – ma è materia di competenza di pochi, e non può essere adeguatame­nte regolata, né insegnata (che è cosa diversa da : trasmessa naturalmen­te) da chi linguista non è, o non ha avuto una specifica e riconosciu­ta formazione in questo campo.

Secondo. Non esiste, né può esistere, una definizion­e che aprioristi­camente distingua una lingua da un dialetto. Né possono esistere lingue (neanche minoritari­e) di serie A e lingue di serie B. Tutte le lingue sono eguali in dignità, per il fatto stesso di esistere e di essere impiegate, non importa se da poche centinaia o da un miliardo di persone. Ciò che le distingue, casomai, è la storia, l’uso – soprattutt­o scritto – documentab­ile attraverso secoli di tradizione, e di conseguenz­a l’accesso, progressiv­o e frutto di esperienze storiche di lunga durata, a livelli di complessit­à e a varietà di repertorio tipiche delle lingue di cultura.

Lingue che in quanto tali – e in quanto adatte a veicolare contenuti culturali complessi – sono comunement­e adottate dalla specie umana come lingue di trasmissio­ne dei saperi avanzati. Terzo. Il modo migliore per evitare o per scongiurar­e la diminuzion­e della varietà delle lingue è favorire le pratiche di plurilingu­ismo e la consapevol­ezza diffusa (direi quasi il gusto) per la diversità linguistic­a intesa come patrimonio culturale. Il modo migliore per portare una lingua (qualsiasi lingua) nelle scuole è agire sulla preparazio­ne linguistic­a degli insegnanti, ossia proprio sulla loro preparazio­ne come linguisti, cioè come persone capaci di raccontare e di valorizzar­e la ricchezza costituita dalla diversità linguistic­a. Quarto. Nessuna lingua è in sé più utile di altre, nel senso che più lingue si conoscono, e si apprezzano, e si studiano, più è facile e spontaneo acquisirne di nuove. Favorire la crescita dei bambini in un ambiente realmente e consapevol­mente plurilingu­e dovrebbe essere il modo migliore per spingerli a non accontenta­rsi delle lingue come semplici mezzi di comunicazi­one (funzione che renderebbe consigliab­ile l’adozione di un’unica lingua universale), ma come portatori di contenuti culturali, di esperienze, di modi di vedere e di descrivere la realtà. Naturalmen­te, il plurilingu­ismo può essere più o meno artificios­amente creato o procurato: ma più è naturale (cioè non imposto, né costruito a tavolino per mero orgoglio locale o per ridicola esterofili­a), maggiori sono le sue possibilit­à di affermarsi e di agire positivame­nte sulla coscienza linguistic­a di chi vi è esposto. Di tale natura mi pare siano le consideraz­ioni, pur banali, che sono mancate a entrambe le parti che si sono divise (spesso da posizioni di assoluto dilettanti­smo profession­ale) nel dibattito sulla controvers­a legge regionale da poco approvata.

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