Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
LA LINGUA E LO SCUDO DEI POLITICI
Primo. Usare la lingua come pretesto o schermo per rivendicazioni politiche, anche legittime, che non riguardano la lingua ma l’economia o altri aspetti del vivere sociale, è una scelta pericolosa. Ed è tanto più rischiosa quando, proprio a motivo della natura pretestuosa di certi argomenti, i dibattiti sulla lingua, sul suo uso, sul suo insegnamento e sulla sua diffusione non sono affidati a linguisti, cioè a esperti professionali di questa materia. Ciò che vale per l’economia o per la medicina non può che valere anche per la lingua, che è usata da tutti – esattamente come lo sono i soldi o i farmaci – ma è materia di competenza di pochi, e non può essere adeguatamente regolata, né insegnata (che è cosa diversa da : trasmessa naturalmente) da chi linguista non è, o non ha avuto una specifica e riconosciuta formazione in questo campo.
Secondo. Non esiste, né può esistere, una definizione che aprioristicamente distingua una lingua da un dialetto. Né possono esistere lingue (neanche minoritarie) di serie A e lingue di serie B. Tutte le lingue sono eguali in dignità, per il fatto stesso di esistere e di essere impiegate, non importa se da poche centinaia o da un miliardo di persone. Ciò che le distingue, casomai, è la storia, l’uso – soprattutto scritto – documentabile attraverso secoli di tradizione, e di conseguenza l’accesso, progressivo e frutto di esperienze storiche di lunga durata, a livelli di complessità e a varietà di repertorio tipiche delle lingue di cultura.
Lingue che in quanto tali – e in quanto adatte a veicolare contenuti culturali complessi – sono comunemente adottate dalla specie umana come lingue di trasmissione dei saperi avanzati. Terzo. Il modo migliore per evitare o per scongiurare la diminuzione della varietà delle lingue è favorire le pratiche di plurilinguismo e la consapevolezza diffusa (direi quasi il gusto) per la diversità linguistica intesa come patrimonio culturale. Il modo migliore per portare una lingua (qualsiasi lingua) nelle scuole è agire sulla preparazione linguistica degli insegnanti, ossia proprio sulla loro preparazione come linguisti, cioè come persone capaci di raccontare e di valorizzare la ricchezza costituita dalla diversità linguistica. Quarto. Nessuna lingua è in sé più utile di altre, nel senso che più lingue si conoscono, e si apprezzano, e si studiano, più è facile e spontaneo acquisirne di nuove. Favorire la crescita dei bambini in un ambiente realmente e consapevolmente plurilingue dovrebbe essere il modo migliore per spingerli a non accontentarsi delle lingue come semplici mezzi di comunicazione (funzione che renderebbe consigliabile l’adozione di un’unica lingua universale), ma come portatori di contenuti culturali, di esperienze, di modi di vedere e di descrivere la realtà. Naturalmente, il plurilinguismo può essere più o meno artificiosamente creato o procurato: ma più è naturale (cioè non imposto, né costruito a tavolino per mero orgoglio locale o per ridicola esterofilia), maggiori sono le sue possibilità di affermarsi e di agire positivamente sulla coscienza linguistica di chi vi è esposto. Di tale natura mi pare siano le considerazioni, pur banali, che sono mancate a entrambe le parti che si sono divise (spesso da posizioni di assoluto dilettantismo professionale) nel dibattito sulla controversa legge regionale da poco approvata.