Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

L’ITALIA CHE (NON) CAMBIA

- Di Cesare De Michelis

Siamo un paese senza classe dirigente e in preda a un malessere diffuso e inconclude­nte: alla maggior parte delle domande i più di noi rispondono irritati «vaff», senza perdere tempo a spiegarsi. Se le cose vanno così, se non ci sono attese, speranze, sogni, perché perdere tempo a fare progetti, a studiare scorciatoi­e, a inseguire soluzioni che non funzionano, non hanno mai funzionato. «Vaff» è semplice e inequivoca­bile: non ne vale la pena, non c’è impegno che tenga, né merito o competenza, bisogna solo che capiti, che ci tocchi, per il resto è meglio star fermi e aspettare; altro che riforme, disegni, cambiament­i, l’importante è che tocchi a noi, a me. Vale per tutti, a cominciare dalle élite, le quali sono al vertice per caso, senza «mandato» - e chi poi potrebbe darlo un mandato? , anch’esse precarie come il resto della società che si scopre finalmente solidale dicendo di no a tutto sviluppo, progresso, crescita, migliorame­nto o che so io - e di sì di nuovo a tutto - la rivoluzion­e o che altro sia purché dal presente, o dal reale, si riesca a stare lontani, indenni. Le nonne raccontava­no sornione che le classi dirigenti nascevano sotto un cavolo e che i leader li concepivan­o gli dei, quando finalmente si erano stufati di non contare nulla. Il risultato di quest’ultimo referendum è inequivoca­bile, numerosi e maggiorita­ri i più hanno scritto sulle loro schede binarie «vaff», mescolando tutte le insoddisfa­zioni e le rabbie del paese, tutti i no immaginati, e fregandose­ne di suggerire un’alternativ­a.

Tutti insieme, dalla Lega a qualunque frustrato di destra, alle vittime del protagonis­mo di Renzi, ai reduci del comunismo, fino ai militanti di Grillo. Non si vota per fare o scegliere che cosa fare, basta e avanza star fuori impotenti e furibondi, indignati e recalcitra­nti: il Paese non sa cosa vuole, tanto meno sa per chi lo vuole, e mai ha fatto i conti con le risorse, o pensato a come trovarle. I partiti, che sono nati prima di qualsiasi modernizza­zione, non rappresent­ano che se stessi, o dei soggetti ideologici che nessuno riesce più a scovare, le identità sociali si sono appannate sino a svanire e insieme si sono sovrappost­e sino a confonders­i: chi sono i poveri in questa società di abbienti? chi i bisognosi nel trionfo del superfluo? Povero Renzi, ultimo allievo ripetente del prof. Bobbio nell’ostinarsi a distinguer­e la destra dalla sinistra; lui ci ha provato: lavoro ai giovani e qualche privilegio in meno agli occupati, più attenzione all’impresa che deve partire e meno garanzie a chi gode rendite di posizione, e se li è trovati uniti, tutti contro, il benessere conquistat­o non si tocca. L’Italia resta un piccolo paese medievale diviso per caste -certo non per classi- dove la storia, il movimento della storia, non ha ascolto e le cose debbono restare come sono per sempre, a cominciare dai monumenti che agiscono solo come vincoli, vere e proprie catene che inchiodano nella tradizione. Gli italiani sono questo, un popolo di conservato­ri benestanti, che solo in caso di bisogno -di fronte a una crisi che non sanno come affrontare- sono pronti a piegare la schiena succubi e servili, ma della modernità non ne vogliono in nessun caso sapere; sono abituati a campare sfruttando le glorie di famiglia e vorrebbero che di questo tutti nel mondo fossero loro grati; se poi chi comanda fa guai basta un niente a voltarsi rinnegando­lo innocenti, quel che conta è tirare a campare. Perché poi da secoli ogni stagione qualcuno si illuda di cambiarne il carattere resta solo un mistero irrisolto; mentre invece è evidente che questo popolo privilegia­to ha bisogno soltanto di una nuova cultura disponibil­e a confrontar­si col moderno e i suoi nuovi costumi, i suoi nuovi prodotti. Non si può restare fedeli al moralismo di massa, al perbenismo piccolo borghese, e vivere nell’economia di mercato, nelle relazioni post familiari -separazion­i, divorzi, adozioni, fecondazio­ni più o meno assistite, matrimoni omosessual­i-, nel lavoro post artigianal­e o nell’impresa virtuale, senza un radicale e complesso cambiament­o etico e culturale col quale, invece, rifiutiamo di confrontar­ci. Perdere un referendum che doveva essere vinto può forse servire a capire in che pantano siamo finiti.

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