Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Referendum, il peso delle categorie e quei 230mila voti persi dalla Lega e da Fi
Uno degli errori più comuni in politica è quello di farsi abbagliare da risultati elettorali apparentemente eclatanti salvo poi scoprire, ad una lettura più attenta, che i numeri usciti dalle urne dicono cose molto diverse e rivelano un’altra realtà. Realtà che, di norma, si rileva al passaggio elettorale successivo. Accadde al povero Achille Occhetto che, uscito trionfatore dal voto alle elezioni amministrative, pensò che altrettanto trionfalmente sarebbe uscito dalle politiche. Il risultato fu, invece, il trionfo di Silvio Berlusconi. Sul referendum, guardando ai dati del Veneto, abbiamo sentito in questi giorni proclami trionfanti della Lega sulla grande vittoria del No, con annesse dichiarazioni di guerra di Marino Finozzi, nei confronti dei vertici delle categorie economiche che, dichiarandosi per il Si, sarebbero state smentite nelle urne dai loro associati. I dati usciti dalle urne in Veneto, dicono però cose diverse. Un primo dato racconta di un Veneto con percentuali del No più vicine a Calabria e Sicilia che alle regioni più europee e produttive del Nord. A Milano, per esempio, così come a Bergamo, il Si riesce addirittura a vincere contro uno schieramento eterogeneo che contava, in partenza, di una sommatoria di voti potenziali ben più alta del 60% raggiunto. Il secondo dato è che, rispetto alle elezioni regionali venete, dove il fronte del No totalizzava circa il 70% è quello del Si il 30%, Lega e FI perdono circa l’8%. Un dato Veneto in controtendenza nazionale, perché, ad esempio, in Friuli Venezia Giulia e Trentino avviene esattamente il contrario. In quelle due regioni è il fronte del Si che perde voti tra le regionali e il referendum nei confronti del No. Di chi sono quei circa 230.000 voti persi da Lega e Forza Italia in occasione del referendum? Si tratta di voti, come dimostrano le indagini degli istituti di ricerca, soprattutto di artigiani e imprenditori. Gente che alle regionali ha votato Zaia mentre al referendum ha scelto il Si. Se così è, la Lega dovrebbe alquanto preoccuparsi per l’esito del Referendum in Veneto ed evitare l’errore di pensare ad un regolamento di conti con le categorie economiche. Non che Zaia corra pericoli, considerata la sua popolarità tra imprenditori e artigiani che, se si dovesse rivoltare, tra lui e la Moretti non avrebbero alcun dubbio. Ma, nella prospettiva di una evoluzione del quadro politico nazionale, nella quale Renzi come sostengono Sgarbi e Feltri - riuscisse a rompere con la sinistra del Pd e formare il suo partito della Nazione - quell’8% di imprenditori rischia di rientrare nel suo bacino naturale di voti più che in quello di una Lega «salviniana». La controprova di una «frattura» incipiente tra Lega e ceto medio produttivo si è avuta infatti a Padova. Nella città del Santo, governata fino a ieri dall’esponente leghista più salviniano che ci sia, Massimo Bitonci, il Si raggiunge addirittura il 47%. Se il blocco del Si riuscisse in quella città a compattarsi attorno ad un esponente moderato del mondo produttivo e delle categorie economiche, i propostiti di rivincita di Bitonci sarebbero frustrati: con un Movimento 5 stelle al 20 % e un «partito del Si» al 47%, a Bitonci e Zanonato (i due esponenti principali del fronte del No) rimarrebbe da spartirsi poco più del 30%. I numeri dunque raccontano una realtà diversa, con potenzialità che suggerirebbero alla Lega di recuperare in fretta il profilo «zaiano» che gli ha permesso di uscire trionfante dalle regionali privilegiando il dialogo allo scontro. Se non lo farà, allora gli scenari che si possono aprire, potrebbero paradossalmente portare a un blocco sociale capace di vincere le elezioni sia alle politiche, sia nelle principali città è, un giorno, a fronte di un eventuale candidato «salviniano», perfino in Regione.