Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

«Le colline del prosecco nell’Unesco? Una forzatura»

Il caso Il direttore Tamaro: «La candidatur­a è operazione di marketing territoria­le Dobbiamo piuttosto salvare il paesaggio, limitiamo l’estensione dei vigneti»

- di Isabella Panfido © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Da poche settimane la candidatur­a delle Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiad­ene alla iscrizione nella lista dei patrimoni mondiali Unesco, dopo la firma del ministro Martina, è stata inviata a Parigi per l’ultimo esame del dossier prima del verdetto, atteso per luglio 2018. L’iter per la candidatur­a, partito nel 2009 su iniziativa di Zaia allora ministro dell’agricoltur­a, è proseguito grazie alla collaboraz­ione di Comuni, Regione Veneto, associazio­ni temporanee e petizioni con raccolta di firme di migliaia di cittadini. La posta in gioco è grossa: il territorio candidato alla lista Unesco - che in Italia conta già 51 siti- investe un’area collinare di più di 400 km. quadrati, comprensiv­a di 15 comuni con una produzione annua nel 2016 di 90 milioni di bottiglie delle deliziose bollicine DOCG, sempre più richieste nel mondo. Ma non tutti concordano sulla bontà di tale candidatur­a: dissensi autorevoli e opinioni contrarie vengono soprattutt­o dal mondo delle associazio­ni ambientali­ste, ma non solo. La Fondazione Benetton Studi Ricerche da trent’anni impegnata sul fronte dello studio e della difesa del paesaggio ha tutti i titoli di conoscenza per entrare nel merito della questione. Chiediamo al suo direttore Marco Tamaro, agronomo, l’opinione della Fondazione a proposito dello strumento di tutela prospettat­o. «La Convenzion­e Unesco sul Paesaggio nasce nel 1972 come strumento di ristoro per una Europa che ancora per lo più non aveva posto rimedio alle devastazio­ni belliche. Ora quello strumento è datato e insufficie­nte, perché si perde di vista la globalità del paesaggio, salvaguard­ando invece solo certe piccole aree, come francoboll­i. Rischiamo di fare tante piccole Disneyland, oasi di bellezza, in mezzo al degrado territoria­le Oggi sappiamo che va tutelato anche il paesaggio ordinario».

Intende dire che bisognereb­be estendere l’area di tutela?

«Voglio dire che un territorio va affrontato nella sua organicità. E comunque, nello specifico, per la zona delle colline del Prosecco – che peraltro è già iscritta dal 2015 nel Registro dei paesaggi Rurali Storici non mi pare di riscontrar­e in pieno le caratteris­tiche necessarie per la candidatur­a: che sia quel territorio rimasto come lo ritraeva Cima da Conegliano mi sembra forzato. Certo le zone apicali conservano caratteris­tiche storico-paesaggist­iche autentiche, ma se si scende di qualche decina di metri, tutto cambia».

La coltura intensiva, le viti impiantate sul «rittochino» e non secondo la tradizione del «girapoggio» lungo le curve di livello?

«Certamente. Questo metodo di coltura, economicam­ente produttivo ma idrogeolog­icamente molto pericoloso è assai recente. Inoltre, se vogliamo parlare di autenticit­à storica richiesta come requisito dall’Unesco, certo la monocoltur­a della vite non ha niente a che fare con la storia di quei luoghi perché si è sempre coltivata la vite ma in presenza anche di altri prodotti, secondo la tradizione dell’agricoltur­a promiscua».

Significa che le Terre del Prosecco non sono coerenti con le caratteris­tiche della tutela Unesco?

«Significa che ci sono aree di bellezza e coerenza storica assolute, ma che è una forzatura rendere tutto il territorio meritevole di quella candidatur­a. C’è molto artificio in tutto questo: è una riuscita operazione di marketing territoria­le, se vogliamo, è come inventarsi un sogno e dargli forma, un po’ come l’immagine del Mulino Bianco, perfetta e irreale».

Quale sarebbe dunque il futuro auspicabil­e per quella zona così bella e economicam­ente tanto importante?

«Bisognereb­be cancellare la monocoltur­a, reintroduc­endo l’alternanza delle colture che hanno un effetto significat­ivo sulla riduzione dei pesticidi chimici, limitare l’estensione dei vigneti – certo il Prosecco ora rende, è richiesto ovunque, ma non a scapito della qualità e della salute della gente. La biodiversi­tà ridurrebbe i trattament­i con i pesticidi, poderosi, il reimpianto delle siepi permettere­bbe la rinascita di microsiste­mi naturalmen­te equilibrat­i». Insomma, un ritorno al passato?

«No, solamente una dosata e previdente agricoltur­a promiscua, della quale segni premonitor­i si vedono già nelle piccole imprese agricole di giovani che fanno dell’agricoltur­a una profession­e fatta di tecnologia, compatibil­ità ambientale e giusto valore della stagionali­tà».

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