Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
«Le colline del prosecco nell’Unesco? Una forzatura»
Il caso Il direttore Tamaro: «La candidatura è operazione di marketing territoriale Dobbiamo piuttosto salvare il paesaggio, limitiamo l’estensione dei vigneti»
Da poche settimane la candidatura delle Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene alla iscrizione nella lista dei patrimoni mondiali Unesco, dopo la firma del ministro Martina, è stata inviata a Parigi per l’ultimo esame del dossier prima del verdetto, atteso per luglio 2018. L’iter per la candidatura, partito nel 2009 su iniziativa di Zaia allora ministro dell’agricoltura, è proseguito grazie alla collaborazione di Comuni, Regione Veneto, associazioni temporanee e petizioni con raccolta di firme di migliaia di cittadini. La posta in gioco è grossa: il territorio candidato alla lista Unesco - che in Italia conta già 51 siti- investe un’area collinare di più di 400 km. quadrati, comprensiva di 15 comuni con una produzione annua nel 2016 di 90 milioni di bottiglie delle deliziose bollicine DOCG, sempre più richieste nel mondo. Ma non tutti concordano sulla bontà di tale candidatura: dissensi autorevoli e opinioni contrarie vengono soprattutto dal mondo delle associazioni ambientaliste, ma non solo. La Fondazione Benetton Studi Ricerche da trent’anni impegnata sul fronte dello studio e della difesa del paesaggio ha tutti i titoli di conoscenza per entrare nel merito della questione. Chiediamo al suo direttore Marco Tamaro, agronomo, l’opinione della Fondazione a proposito dello strumento di tutela prospettato. «La Convenzione Unesco sul Paesaggio nasce nel 1972 come strumento di ristoro per una Europa che ancora per lo più non aveva posto rimedio alle devastazioni belliche. Ora quello strumento è datato e insufficiente, perché si perde di vista la globalità del paesaggio, salvaguardando invece solo certe piccole aree, come francobolli. Rischiamo di fare tante piccole Disneyland, oasi di bellezza, in mezzo al degrado territoriale Oggi sappiamo che va tutelato anche il paesaggio ordinario».
Intende dire che bisognerebbe estendere l’area di tutela?
«Voglio dire che un territorio va affrontato nella sua organicità. E comunque, nello specifico, per la zona delle colline del Prosecco – che peraltro è già iscritta dal 2015 nel Registro dei paesaggi Rurali Storici non mi pare di riscontrare in pieno le caratteristiche necessarie per la candidatura: che sia quel territorio rimasto come lo ritraeva Cima da Conegliano mi sembra forzato. Certo le zone apicali conservano caratteristiche storico-paesaggistiche autentiche, ma se si scende di qualche decina di metri, tutto cambia».
La coltura intensiva, le viti impiantate sul «rittochino» e non secondo la tradizione del «girapoggio» lungo le curve di livello?
«Certamente. Questo metodo di coltura, economicamente produttivo ma idrogeologicamente molto pericoloso è assai recente. Inoltre, se vogliamo parlare di autenticità storica richiesta come requisito dall’Unesco, certo la monocoltura della vite non ha niente a che fare con la storia di quei luoghi perché si è sempre coltivata la vite ma in presenza anche di altri prodotti, secondo la tradizione dell’agricoltura promiscua».
Significa che le Terre del Prosecco non sono coerenti con le caratteristiche della tutela Unesco?
«Significa che ci sono aree di bellezza e coerenza storica assolute, ma che è una forzatura rendere tutto il territorio meritevole di quella candidatura. C’è molto artificio in tutto questo: è una riuscita operazione di marketing territoriale, se vogliamo, è come inventarsi un sogno e dargli forma, un po’ come l’immagine del Mulino Bianco, perfetta e irreale».
Quale sarebbe dunque il futuro auspicabile per quella zona così bella e economicamente tanto importante?
«Bisognerebbe cancellare la monocoltura, reintroducendo l’alternanza delle colture che hanno un effetto significativo sulla riduzione dei pesticidi chimici, limitare l’estensione dei vigneti – certo il Prosecco ora rende, è richiesto ovunque, ma non a scapito della qualità e della salute della gente. La biodiversità ridurrebbe i trattamenti con i pesticidi, poderosi, il reimpianto delle siepi permetterebbe la rinascita di microsistemi naturalmente equilibrati». Insomma, un ritorno al passato?
«No, solamente una dosata e previdente agricoltura promiscua, della quale segni premonitori si vedono già nelle piccole imprese agricole di giovani che fanno dell’agricoltura una professione fatta di tecnologia, compatibilità ambientale e giusto valore della stagionalità».