Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
LA (NON) FESTA DELL’8 MARZO
Niente festa delle donne, quest’anno, perché non c’è niente da festeggiare. Non mimose o cioccolatini buoni soltanto a far girare l’economia. Niente cinema con le amiche o serate pornosoft ad ammirare maschi dal corpo scultoreo. Ma sciopero globale in 40 Paesi del mondo. Sciopero dal lavoro pubblico, privato, domestico (per intenderci, niente spesa, cucina, letti rifatti). Insomma, una giornata senza di noi, per riflettere, far riflettere, esprimere la nostra rabbia. Uscendo tutte («non una di meno») in piazza, vestite di nerolutto e rosso-sangue. Per protestare contro la violenza che è prima controllo, aggressività psicologica, per poi diventare fisica, sessuale, arrivando nei casi più gravi al femminicidio o alla distruzione della bellezza di colei che osa riprendersi la sua libertà. Ma non basta: si lotta anche per la parità, contro una cultura fallocentrica e un immaginario mediatico misogino, in cui la donna è ancora vista come oggetto sessuale o lavoratrice domestica senza stipendio, come proprietà del maschio, che ha il diritto di lasciarla e il diritto di non essere lasciato. Dite che sono casi limite? Ma allora perché le coppie sempre più vacillano, i figli sempre più ne soffrono, le donne, anche se economicamente autonome, sono poco felici (ne è prova l’abuso di psicofarmaci e le fumatrici di ogni età che invadono le strade assai più degli uomini)?
Q uesto in Occidente, dove sono violenza anche le lettere di dimissioni in bianco in certe ditte per utilizzarle in caso di gravidanza. O la disparità di stipendio a parità di lavoro, o la difficoltà a raggiungere ruoli di direzione, salvo eccezioni di donne potenti e già privilegiate. E ancora le leggi scritte sopra i nostri corpi, il rischio di aborti clandestini per obiezione di coscienza dei sanitari, i tribunali in cui la vittima è, talvolta, giudicata prima ancora del carnefice (Aveva bevuto? Com’era vestita? Lo sciopero delle donne, comunque, non è una novità assoluta. Già la mitologia ci aveva fatto conoscere, grazie ad Aristofane, il personaggio di Lisistrata che avrebbe indotto altre donne all’astensione dal sesso per indurre i mariti a por fine alla guerra. Una commedia, ma ha creato un archetipo. Molto più tardi, a inizio Novecento, hanno scioperato per motivi di genere le camiciaie di New York, poi le operaie dell’allora Pietrogrado. Infine, oggi, hanno rilanciato l’idea le donne argentine. Lo sciopero serve non solo per chi vive in Paesi «evoluti» ma anche o soprattutto per dar voce a chi non ce l’ha. Come le donne e le bambine del Terzo Mondo, dove non esiste il diritto-dovere all’istruzione, dove si praticano mutilazioni sessuali e si obbligano le adolescenti a nozze indesiderate e maternità precocissime, s’impongono abiti che nascondono corpo e il volto, e s’infliggono alle ribelli punizioni che possono arrivare, oltre alle frustate, alla lapidazione. Intendiamoci: non tutti gli uomini sono orchi narcisisti e crudeli, ci sono anche quelli intelligenti, collaborativi, affettivi. Bene, devono moltiplicarsi. E le donne non sono tutte angeli, ci sono le aggressive, le pigre, le capaci di crudeltà. Male, devono cambiare. Ma le ragazze, anche se non hanno ancora capito cos’è il femminismo e disdegnano la parola, sono in maggioranza brave a scuola, all’università si laureano prima dei loro coetanei anche in facoltà un tempo «maschili», e, se trovano lavoro, lavorano bene. Non vogliono il potere, ma la parità e la libertà. Sperano nell’appoggio maschile ma intanto solidarizzano fra loro più di un tempo. Insomma l’8 marzo di lotta e non di festa punta alla messa in crisi di vecchi modelli antropologici e sociali, al ribaltamento degli ingiusti rapporti di forza.