Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
IDENTIKIT DEI VENETI IN FUGA
Difficile resistere. Difficile resistere se la paga è più alta del 36 per cento, se nel 6,8 per cento dei casi la qualificazione è migliore, se – infine – le opportunità di carriera sono superiori nel 21 per cento dei lavori. Queste tre percentuali – frutto di una ricerca (italiana) dell’Osservatorio sociologico del cambiamento di Parigi – la dice lunga (anzi, la dice tutta) sulla cosiddetta fuga dei cervelli, del fatto cioè che un numero crescente di laureati italiani vada a lavorare all’estero. Che sia crescente il numero lo ha confermato l’Istat pochi giorni fa: lo scorso anno sono stati 115 mila gli italiani che hanno deciso di trasferirsi in un paese straniero, un numero superiore del 13 per cento rispetto al 2015 e che è quasi triplicato in sei anni. Il tasso emigratorio più elevato non viene però – come si potrebbe pensare – dalle regioni meridionali più battute da disoccupazione e mancanza di prospettive – ma proprio dal nordest. Con Bolzano al primo posto seguito dal Friuli, da Trento e dal Veneto. Chiudono Campania, Puglia e Basilicata. In particolare dal Veneto si va soprattutto nel Regno Unito, tallonato nelle preferenze da Germania e Francia. Ma se l’emigrazione dei ventenni (i giovani dai 21 ai 30 anni sono la maggioranza relativa) viene per lo più da quel Nordest che rimane la prima area del paese in termini di qualità dello sviluppo, come dice una recente ricerca della Fondazione Di Vittorio, allora significa che il fenomeno non va letto come un fatto di tragica disoccupazione.
Ma come una ricerca di lavoro attiva ed «autoimprenditorial e» frutto di una cultura della mobilità aperta e dinamica. Sperando che questi giovani espatriati diventino anche buoni «ambasciatori» di reti e filiere produttive, aziendali, scientifiche con i territori di provenienza. Nell’emigrazione italiana c’è poi una seconda componente, molto più contenuta ed antropologicamente del tutto differente. Per motivazioni e per età. Sono i pensionati, che vanno a godersi la vecchiaia in paesi dove il costo della vita è minore o il fisco è meno pesante (e quindi la pensione vale di più) ed il clima è sempre mite. Anche qui i numeri, pur contenuti, sono comunque crescenti: più di 5 mila all’anno secondo l’Inps (un numero più che raddoppiato in cinque anni), di cui 550 dal nordest. Vanno alle Canarie, in Portogallo ma anche in Romania, Bulgaria ed Albania. E pure in terra d’Africa, nella dirimpettaia Tunisia. Insomma lontani ma vicini, segno comunque di una globalizzazione che non è monopolio solo del lavoro dei giovani, ma anche del post-lavoro degli anziani. In cerca di un «posto al sole» che valorizzi pensioni sempre più scarne. E segno di una mentalità «giovanilizzata», distantissima da quella tradizionalmente ancorata ai luoghi abituali tipica degli anziani di ieri.